DISCRASIE - SESSIONI METACRITICHE

Le "discrasie" di Giovanni Fontana

Giovanni Fontana - Discrasie

di Francesco Muzzioli

Giovanni Fontana, portacolori della poesia verbovisiva, straordinario performer e vocalista ma anche autore di una vasta produzione visuale, nell’ultimo periodo ha elaborato ‒ come poeta “lineare” ‒ un suo particolare stile, anzi, per meglio dire, un suo particolare ritmo. Lo attesta e lo precisa questa recente raccolta, Discrasie, pubblicata nella collana di Entroterra per Novecentolibri, accompagnata da uno scritto critico di Marcello Carlino.
Di che ritmo si tratta? Che il testo sia o no scandito da barre che sostituiscono l’a capo del verso tradizionale, è comunque costituito da un flusso verbale sostenuto da ripetizioni: spezzoni di metrica, rime, assonanze, riprese e quant’altro contribuisca a creare un ambiente cadenzato che diventa una vera e propria sfida al rap.

Rispetto al precedente Questioni di scarti il nuovo libro è necessariamente meno coeso, trattandosi di una raccolta di testi aventi diverse provenienze e diverse destinazioni, diverse tematiche e diversi dedicatari. Per cui anche il procedimento attuato da Fontana trova più soluzioni e varianti (con barre, senza barre, in prosa unica, con i trattini, a più voci, ecc.); ma con la costante di una ricerca ritmica decisamente originale e incisiva.
Si potrebbe dire che non si tratta d’altro che di visualizzare il tempo («visualizza il tempo / il tempo / e slitta / slitta», dice l’abbrivio di Partita doppia), cioè di marcare il tempo, o, ancora in altre parole, di stendere sulla pagina un’idea di respiro vocale. Abbiamo allora una poesia-spartito (così come, anche nelle prove visive, Fontana utilizza i “righi” di un approccio musicale ‒ vedi, ad esempio, qui, l’immagine in evidenza). Le barre suddividono non tanto i versi quanto le pause che separano le unità minori, i moduli ritmici, potremmo dire, che compongono le unità maggiori o frasi (chiamiamole pure “lasse”). Le unità minori appaiono sempre legate tra loro da qualche somiglianza sonora, mentre le unità maggiori hanno spesso un identico segmento iniziale sicché l’intero testo risulta organizzato in base a fattori d’ordine, rifrazioni e ritorni.
Prendiamo un esempio da Finissage, il testo conclusivo della raccolta:

ceruli abissi / squassi / profondità di glomeruli in esercizi iperbarici / ovarici dilemmi / lemmi in connessioni autorganizzate / per pieghe e pieghe / quando il sistema dinamico accende figure e lingua / e si espande in cervelli altri / per altrui livelli / nel quadro encefalico / che strega / di piega in piega / gli umori secreti oltre il tragico oblio dell’omega / l’ingiusto silenzio / ché la memoria selvaggia scioglie il dilemma dell’eco

Non è qui il luogo per un’analisi approfondita, tuttavia già salta all’occhio la sproporzione dei segmenti, il gioco di passaggi dal corto al lungo. Anche un’analisi metrica non darebbe altro esito che il riscontro della disparità e dei cambi di pedale dal ritmo binario («che strega / di piega in piega»: ‒ + ‒ / ‒ + ‒ + ‒) e il ternario («gli umori secreti oltre il tragico oblio dell’omega»: ‒ + ‒ ‒ + ‒ ‒ + ‒ ‒ + ‒ ‒ + ‒). E naturalmente gli effetti sonori: le rime in posizione finale (strega/piega/omega), ma anche tra fine e inizio (iperbarici/ovarici, dilemmi/lemmi), interne (cervelli/livelli) oppure imperfette (abissi/squassi). La tessitura verbale, quindi, per quanto riprenda modalità invero tradizionali come la rima, non concede nulla alla regolarità; semmai si lascia portare dall’impulso, come se scorresse su di un nastro di volta in volta sezionato, per cui si notano i tagli (Questioni di tagli, è il titolo del testo dedicato a Balestrini) e i rilanci di una scrittura che di punto in punto, di lacerto in lacerto riprende forza e riparte. Quasi l’allegoria di una materia incontenibile. Una energia ritmica che trae origine dal corpo e che intende incidere nell’incorporazione del ricettore.
Ma dove starebbero le discrasie indicate dal titolo generale? La discrasia, il vocabolario la definisce: “Secondo la dottrina umorale ippocratica, lo squilibrio nella composizione o temperamento (crasi) dei quattro umori dell’organismo umano, che caratterizza e condiziona ogni stato morboso”. Uno squilibrio, una patologia: ma allora discrasico è il mondo, il mondo odierno del capitalismo impazzito (già esplorato adeguatamente nelle sue assommanti deiezioni in Questioni di scarti). E allora la musicalità poetica, che pure è posta in primo piano, non restituisce affatto armonia alla dissonanza della realtà. Non vuole sublimare, quanto piuttosto rilevare con l’incalzare di una sonda che scende in profondità: e la ripetizione ha la forma di una inesauribile inchiesta della parola su se stessa. Sarà polemica, come nella Sequela della nebbia, che altro non è se non l’obnubilamento sistematico delle coscienze («Perché nella nebbia le idee vanno a male. E fanno male al cuore»); ma anche autoironica  («il Fontana / un po’ poeta un po’ architetto / quel tanto di alchimista fuoripista che tenta ancora di aggiustare il tiro barcamenandosi nel duemila-e-due in improbabili autoritratti a richiesta»).
E capace, al buon bisogno, di rivolgersi alla operazione stessa, non per nulla il sottotitolo del libro recita Sessioni metacritiche. Tanto da seguire il proprio procedere davvero passo per passo, come dice il brano intitolato Pas à pas, dedicato a Julien Blaine e caratterizzato perciò da uno spiccato plurilinguismo:

sì / pas à pas … misura il percorso attentamente / conta i passi scrupolo­samente / ma poi improvvisamente / ecco la chute / j’appris hier qu’il a pris de se jeter du haut des marches de la gare Saint-Charles / Blaine est le cris / le corps catalysant / il colpo gobbo / segno di mutamento / un volo di rigenerazione / fermento / ces cris / qui prennent le ton du défi / d’un coup / en chair et en os / il marche / par affirmation de la démesure et de la transgression / déclaration d’engagement / le rythme à grands pas / encore un cri / le rythme à grands pas / encore un cri / le rythme à grands pas / encore un cri / la chaleur / un acte d’amour / il marche

Dove si nota la dialettica fondamentale tra l’ossessione della misura che circola in tutto il testo come strutturazione che rimanda alla sorveglianza sperimentale e dall’altra parte la chute, la caduta, il punto di rottura, l’interruzione e l’irruzione dell’imponderabile, del fuori misura. Parallelamente, l’intera raccolta è animata dalla dialettica tra l’impianto sonoro, essenzialmente ludico-pulsionale, e il rapporto con altri autori evidenziati nelle dediche, per cui il lavoro di Fontana si configura spesso come reazione al testo altrui e (soprattutto nella parte finale) si fa quasi recensione in forma di testo parallelo.
Giustamente Carlino, nel suo scritto a margine sottolinea, oltre al principio dell’intermedialità, la questione della tecnica (che, seguendo Benjamin, “non va demonizzata”). E questo libro, in effetti, animato com’è da una irrefrenabile ipervocalità, tuttavia indica chiaramente in essa una precisa e netta tendenza critica.

Francesco Muzzioli, 2020 - in Critica Integrale, francescomuzzioli.com 

La via è la voce, la voce è la via

di Marco Palladini

Operando nel solco di Adriano Spatola e Arrigo Lora-Totino, al presente Giovanni Fontana (Frosinone, 1946) è incontestabilmente il maggiore esponente nostrano di una ricerca poliartistica che, oscillando tra i principali campi della poesia sonora e di quella verbovisiva, è venuta nel tempo a qualificarsi come “epigenetic poetry”. Così rappresentandosi un fare multipoietico che procede per mutazioni progressive delle forme espressive del codice genetico creativo, ovvero alimentando una recherche mai uguale a se stessa e virtualmente interminabile. Come si vede in una recente pubblicazione – Discrasie (Roma, Novecento Libri, 2018, € 12,00,) – che reca il sottotitolo indiziario “Sessioni metacritiche”. Trattasi, in effetti, per la più parte di testi di natura poetocritica o meta-poetocritica in cui la scrittura manifesta, con evidente slancio, la volontà di dissolvere il confine tra la parola poetica e il logos critico, producendo rapinosi, fluviali prosimetri dove il pensare e il poetare fanno corpo unico, risultano indistricabili. Peraltro Fontana, che è architetto, costruisce le sue texture attraverso una progettualità verbofonica, attraverso architetture-partiture che sono sempre protese all’oralità, alla sapiente messa in voce. La phonè come sigillo di poesia totale, come compresenza dinamica di teoria e prassi che si esaltano, come osserva Marcello Carlino nella postfazione al libro, “nel lavoro di accostamento e di ritessitura e di sviluppo proiettivo verso il nuovo (nel lavoro di decontestualizzazione e di ricontestualizzazione)”. 
Basta qui fare qualche esempio tra i molti testi dedicati.
Questioni di tagli – per Nanni Balestrini: “… funziona così / planando sulle sfere sensoriali / sui materiali politici / sui contesti criminali / che l’occhio assassino sfida / senza clemenza / demistificando materie in odore di trasparenza / quindi di inganno spacciato per sopraffino / ma grossolanamente ordito / a scandaglio / in conto taglio…”.
Partita doppia – a John Cage: “… come in imaginary landscape / per dodici apparecchi radio / ecco / ciascuno azionato da coppie di strumentisti esperti / delegati alla regolazione del volume / al controllo della sintonia / a piacimento / a tradimento dell’avvenimento / che si fa evento e teatro di suoni…”.
Zeroglifici – per Adriano Spatola: “… ecco corpi lacerati nella prevaricazione / uno strappo sconveniente / un’agonia di superfici / ecco traguardi abissali finalmente / come in quei percorsi di deframmentazione / … un ciclo di molecole in tensione / di molecole in pressione / conferma di regole fosfenestetiche / ecco che sensuale muove / lalinguabiforcuta dei prodigi…”. 
Dell’impassibilità del naufrago – per Stelio Maria Martini: “… barocco il tocco / farlocco il sospetto dei deferenti / l’unicità della phonè è inquietante / quando bizzarra scalcia scrollandosi le pulci del semantikè / così perfetto e pedante / per allenarsi nell’indeterminato / versus l’universo logorroico dei ritagli collazionati a caso / perché il caso tiene l’unica spola dignitosa / nella difettosa plaga dei poteri che si dicono sospesi…”. 
Costanti ritmi e filamenti metacritici per una poesia che è sempre, per parafrasare Hannah Arendt, una ‘poesia activa’, anzi per meglio dire ‘performactiva’ che dà luogo ad una voce metamorfica e assieme inconfondibile, una voce che si è generata ed affinata secondo una precisa e iperconsapevole ricerca di stile, perché come afferma Gianfranco Contini: “Lo stile è il modo che ha un autore di conoscere le cose”. 
La voce di Fontana si rilancia pure nel volumetto in francese La voix et l’absence (Dernier Télégramme, 2019, € 12,00) che raccoglie una serie di estrose tavole verbovisive poste a fronte di altrettante pagine dove lacerti verbali galleggiano nello spazio bianco in un multiplo giuoco tipografico. Un prezioso librino d’artista in cui vieppiù si sottolinea la natura ora enigmatica e ora ironica delle partiture visuali e verbali-musicali di Fontana. Sull’azione compositiva del poeta ciociaro in cui la voce si vede e la visione è una voce, interviene Julien Blaine con una postfazione a sua volta metacritica, dove gioca con poetiche allitterazioni intorno alla scaturigine fantasmatica della voce: “«La voix de l’absence» / non! / «La voie de l’absence» / non! / «La voie et l’absence» / non! / «La voix et l’absence» / oui! / … «Lis! Vois! La voie c’est la voix» ou… «Lis! Vois! la voix c’est la voie»”. Dove la via contiene certamente il riferimento al Tao, come grande via per esplorare e realizzare le proprie potenzialità spirituali. Ecco la voce si manifesta nel silenzio, ossia viene da un’assenza e richiama l’assenza da intendersi come il senso nascosto delle cose. Nella ‘performattività’ epigenetica di Fontana la poiesis traccia il cammino per interrogare il mistero del mondo. 

Marco Palladini - Ottobre 2019    

Da "L'immaginazione", n. 317, maggio-giugno 2020, Manni editore (p. 58-59)

 

Dalle discrasie di Giovanni Fontana, insorgenze neghentropiche

di Antonino Contiliano

Discrasie: un presupposto come sistema. Sessioni metacritiche: un campo di mutamenti e trasformazioni del/nel sistema.  Un sistema di fasi che correlano in circolo il presimbolico – lo stato di mescolanza caotico del quid materico delle dis-crasie in brodo quantico – e le diramazioni analitiche della critica come campo di atti logo-linguistici differenziali in onda artistica ritmico-po(i)etica – separazione, distinzione, esame, giudizio, valutazione, giudizio. Atti che incidono la miscela delle discrasie e le mettono in frequenza enunciativa inscrivendone l’individuazione testuale significante differenziale. 
Una significazione che per le vie del senso mette in gioco anche un certo plurilinguismo inter-mediale anti-controllo per dare battaglia al degrado dell’informazione psico-collettiva impiegando il Pegaso utopico quanto emarginato dell’arte e della poesia (non a caso Marcello Carlino nel testo che accompagna il libro – Discrasie - sessioni metacritiche – di Giovanni Fontana, identifica lo stesso come un poliartista che sfrutta l’inter-medialità quale arma antagonista che scompagina il monolinguismo della comunicazione medusatizzata del postmoderno). 
Una rete di operazioni tecniche che, incrociando così l’entropia della comunicazione devitalizzata con la dimensione critica e metacritica, ne sfronda il degrado e ne recupera l’energia stabilizzata dandole una forma che rinnova e amplifica l’informazione nella direzione di un incremento plastico del senso (J. Lotman riconosceva la funzione poetica del linguaggio nella sua capacità di rendere “plastica” la complessità della tessitura testuale di un componimento come strutturazione autonoma). Quella particolare forma testuale cioè che produce informazione altra, neghentropica: né chiusa né univocizzante ma strutturazione in divenire; un passaggio dinamico che la trasborda nell’orizzonte dell’amplificazione semantizzante ininterrotta, lasciandone le soglie per lo più sempre aperte attraverso una pratica scritturale vigile e pungente: una potenzialità semiotica mossa e accorta, critica e meta-critica. Anche la stessa scansione grafica, non per ultima la dimensione relativa alla punteggiatura, riceve il suo giusto movimento. È come se l’immaginazione produttiva suggerisse stesure fuori norma. 
Il punto fermo della chiusura, per esempio, nella scala delle determinazioni del dire-scrivere ha poco o affatto spazio nei sintagmi impaginati e allineati nella fase del verso e delle strofe; e vari sono i connettivi che ne canalizzano la connessione concomitante. Anche le barre oblique – “ / ”–  sembrano avere più di un uso: non solo pausale senso-semantico e tonale. Sono una soglia e al tempo stesso un limite che frantuma l’indeterminato di partenza, o del quasi detto delle “parole giuste” come aggancio al pre-formato – l’apeiron che precede e segue il potenziale, o l’espresso nello spazio esperito della pagina – per disciplinare una prassi di senso tendenziale; e ciò tuttavia senza la pretesa di esaurirne le insorgenze, i “tagli”. 
Citiamo: « […] / funziona così / che il problema è come agire / come risalire al senso / rimediando per dissenso le parole giuste / da esaminare in fughe zigzaganti e laterali / in ombra e di profilo / espunte da contenuti banali / valorizzate nei minimi dettagli / puntando a perdere / con determinazione

funziona che devi riuscire a prevalere / per disperdere tracce in grovigli recuperati ad arte / in parte dislocati su tavoli anatomici / è la talpa che trivella cavi metropolitani / treni d’iterazioni in nanosecondi di cricche mentali / i linguaggi diagonali funambolicamente accorti estorcono polisemici afflati 

il gioco è sulle denunce larvali / […]» (Questioni di tagli, p. 17).

 Ma le denunce che il poliartista Fontana mette sul tappetto delle sue sessioni metacritiche hanno anche una topologia non larvale: sono anche quelle che la storia, in gloria apertis verbis della civiltà “ecclesiale” dello sfruttamento e dell’oppressione, ci ha lasciato e ci lascia come una vicenda ancora non espiata; siamo cioè nella storia della terra che svena le braccia migranti. Poco importa se il testo metacritico – “Palude” (pp. 35-38) – di Giovanni Fontana rimanda allo sfruttamento dei migranti stagionali consumato presso le paludi pontine del regno papale di una volta. Il fenomeno dei braccianti e dello sfruttamento, benché focalizzati al passato, non smettono di certo di alludere al presente della civiltà cristiano-occidentale modernizzante. La “palude”, infatti, allegoricamente, crediamo, non a caso, ad incipit, pur preceduta dalla chiara indicazione “in memoria dei braccianti ciociari per secoli migranti stagionali nelle paludi pontine”, usa un presente indicativo: 

« la palude incombe / incombeva / greve d’acqua e di melma / su poveri gesti villani / pantani d’inferno / d’insetti / d’infetti distretti / per fondi lacustri al demanio di terre papali / […] //  la palude che incombe / incombeva / d’acque grevi e di melma / […] // fu la fatica senza sorrisi / […] // fu la fatica senza sorriso / quando prìncipi latifondisti / mettono a frutto le terre e le acque / e si ingegnano aspri / in tristi sistemi di caporalaggio / bestemmiano cuori croci e denari / è mano d’opera di derelitti / […]» (pp. 35, 36).

Il testo richiama alla memoria il tempo delle braccia dei migranti (interni ed esterni) e ne dice le condizioni di vita socio-individuale non certamente emancipatrici e gioiose; cosa che non estranea (anzi!) al nostro tempo di incivile civiltà neo-ordoliberista (basta un batter di ciglia all’inferno della nuova palude terraquea dell’Italia eurolandia, il Mediterraneo come fossa e cimitero dei nuovi popoli migranti). Ma il poliartista Fontana, nel caso indicato, manifesta pure il suo inequivocabile giudizio contundente (la dignità di chiunque e ciascuno, specie se deboli, non può essere offesa e lasciata al godimento sfruttatore dei masnadieri e manager di turno); e lo fa attraverso la scelta del “valore” di certe parole che significano lo status (anche temporale) di quanti assoggettati: “incombe, greve, grevi, senza sorriso/i, derelitti…”. Non è certo difficile, nel contesto, afferrarne il valore di denuncia e condanna cui Giovanni Fontana non intende rinunciare e, al tempo stesso, leggerlo come un invito a non dimenticare e a ribellarsi. 
Una testualità artistico-poetica simbolica dunque, quella del nostro autore, poeta e artista che, secondo chi scrive, pone l’informazione sul piano di un rapporto neghentropico plastico e amplificante, così come è sapiente il suo giostrare una grammatica tendenziosa con gli elementi relazionali asemantici (come la punteggiatura, o un certo enjambement strofico, o le inversioni in uso che sferzano lo scambio standardizzato del mercato comunicativo) in connessione (in genere) con le stesse nozioni semantiche del linguaggio, o con gli strumenti della metaforizzazione, allegorizzazione, allitterazioni etc. L’esito, sempre secondo chi scrive, è la generazione di catene d’ordine neghentropiche destabilizzante l’entropia (il disordine) delle “discrasie”, invertendole in sorgenti da cui partire per organizzare l’ontogenesi di ogni com-posizione poetico-scritturale individualizzata ed erosiva. 
Forse, per stare dentro e fuori a queste “discrasie” di Giovanni Fontana, non sarebbe inopportuno il richiamo al modello genetico-creativo di una colonia di coralli, o quello dei processi delle formazioni cristalline. In questi ambienti, mai saturi, infatti, come nell’impaginato artistico-poetico di Fontana, l’insieme è come un sistema sempre in crescita: una ramificazione delle parti in rapporto di ampliamento per successivi depositi topologico-temporali di semi costituenti e disciplinati tecnicamente. Una gemmazione cioè proliferante significazioni e senso per grammatica, sintassi e logica poetica non convenzionale (il mondo dell’arte e della poesia, solo per inciso, non ha referenza che propria; ma non per questo è proiettata meno alla destabilizzante del senso comune, o a colpire il regime politico-culturale della comunicazione ufficiale standardizzata e dominante: i tagli polisensi e deliranti sono colpi di aggressione al monolinguismo della comunicazione  controllata, e non certo semplici rumori di fondo non canalizzati.
Così, se (per qualche esempio, crediamo pertinente) guardiamo la struttura formale del testo individuato come “IMAGO” del 2002 e dedicato a Sergio Zuccaro (pp. 11-14), possiamo vedere le sfasature utilizzate come dirompenti il consueto della formalizzazione rituale lì dove di in-formazioni in in-formazioni tra-ducono la significazione processuale come una decisione che fa scattare l’istante verbale e l’uscita dal ni-ente. Così i due punti (:) che danno inizio al dis-corso delle frequenze lineari – che nella forma della norma solita dovrebbero pur seguire un nucleo significante per poi iniziare una s-pieg-azione e poi chiuderla – precedono invece l’espressione esteriorizzata (quanto basta, già fin dall’inizio, per smuovere un’attenzione addormentata). Dal canto loro le barre oblique – “ / ”–  che intervallano i sintagmi poetici di ogni strofa (come gli stessi sintagmi dei versi in linea), sembrano giocare più di una funzione: racchiudono allitterazioni e rime (espedienti d’arte come le anafore e i parallelismi); al tempo stesso sono membrana che consente il passaggio del messaggio da una parte all’altra, sì che la risonanza interna/esterna lascia che il discreto-continuum delle onde fono-semantiche curvi la “norma” e non serri il solvente «: che si voglia o no / imbracato bréttine e bretelle  […] / […] deborda dai manoscritti per carenza d’equilibrio ribattendo i fischi / cosicché si scempia e scheggia / ogni conato di normalizzazione // 

: che si voglia o no con cura describere segretamente una serratura / di factura sicura / di mano experta / di caratura et mensura certa / per premura di scorta si eviti il chiavistello / e si apra bel bello il serrante con un verso solvente / […] » (p. 11).

Una processualità significante, queste “discrasie”, che amplifica, allora, senza stasi, l’informazione e la sua plasticità complessa come il gettito di una fontana turbo-lenta. Un itinerario già proprio alla lunga militanza pratica artistico-poetica di Giovanni Fontana. Di lui è nota l’attitudine a impiegare nel circuito creativo ogni risorsa che provenga dall’innovazione tecnica; e non ultima l’elettronica, la videoarte, il digitale (per inciso, sul piano dell’ontogenesi del testo poetico e della sua analisi, J. Lotman non ha fatto mistero di servirsi delle categorie della cibernetica e della biologia per aggiornare la lettura estetica e concettuale delle produzioni artistiche e poetiche contemporanee come autonoma testualità semiotica e fuori le ripetizioni svitalizzate). È in questo circuito, ci sembra, allora, che vada collocato il gesto finalizzato al mutamento combinatorio dell’artista e, fra le altre cose, suggeritoci dal prefisso ‘meta’ della sua poiesis testuale fra discrasie e meta-critica.
In queste sessioni metacritiche poietiche la pluralità dell’indeterminato – imago, erranze, palude, sequela della nebbia… –, tanto per richiamare alcune delle nozioni che costituiscono le “metacritiche”, traendolo dalle “discrasie” (mescolanze caotiche), si tras-forma in testo determinato denso e in tensione. Una tensione dirompente che trova la “parole” come via d’uscita e potenziamento logico e immaginativo di una lingua e di una significazione neghentropiche. Del resto la parola composita meta-critica, e non a caso, ci sembra che, correlata alla parola dis-crasia (dys-crasía, la mescolanza caotica), sia l’indice di un discorso “metastabile” plurivocizzante, polisemico e in combutta, con ragione e volontà, contro la stabilità dell’ordine votato all’univocità passivizzate del massmediale imperante e statico.
In quest’altra prova del poliartista Fontana, che confligge la possibilità dell’entropia dell’informazione sempre in agguato, la discrasia non è lasciata alla sua nuda amorfità. Le sessioni giocano infatti altre direzioni di senso; sembrano piuttosto, ci permettiamo un’analogia, delle “sedute” di schizoanalisi anti-edipica; una scissione che, alla stregua di una costellazione di elementi anti-sistema-mondo, libera il desiderio destrutturante l’ordine reale, mentre le correlate tangenti e contingenti amplificano l’informazione conflittuale e resistente piuttosto che ridurla e semplificarla! Un bagno nel gruppo di testi, raggruppati sotto la nominazione di «DISLESSIA COREOGRAFICA - Imbastiture sonore» – Transverse projection, Seduzione, Corpi liberi, Amazzoni - Scultura vivente, Corpo a corpo, Conflitto, Frammentazioni- Flash back, War dance, Danza del vento, Lacerazioni, Centaura, Danza rituale, Pentachillea, Hard Body, La violazione delle regole, Oltraggi, Scontro, Furore, Amplesso, Danza d’Amoremorte - Corpo a corpo, Finale dance  –, direbbe molto sull’erranza poetica sussunta sotto la voce del desiderio, delle contraddizioni, delle “deformazioni” e all’ottimismo «avvelenato dall’anacronismo dei tuoi fardelli di informazioni stinte / e sovrapponibile allo schermo panoramico dei cristalli liquidi che viaggiano / nelle pliche / nelle pliche stagne / nelle pliche dei cervelli impermeabili al dubbio / […] / in profili trasmigranti di contraddizioni / su per l’invidia dell’altrui sesso / […] / da passo a passo: ora è lui che sembra minacciare con passione» (p. 66). 
Ora (per finire) uno scorcio di veduta con alcune battute di CORPO A CORPO e di SCONTRO.
CORPO A CORPO: «Senti la seduzione / sale nel brivido della partecipazione / senti / soggioga posizioni / guarda / assedia / arrocca / e come stringe / ruba il metro del destino / allora tu segui sulla diagonale il suo destino e il tuo e il metro dei tuoi passi / […] / niente è descritto nei dettagli che deviano lo sguardo : ciò che è certo è l’incerto del combattimento» (p. 67).
SCONTRO: «Invasero / così / guarda / con fortissimo impatto / lo spazio del loro peccare d’innocenza criminale / tu / senti / così / come dalle vertigini estreme scaturiscano lampi di ribellione / contro inutili tentativi di arresto / […] / oltre le balze ripide della speranza / rapide  le vergini / enfatizzando / sazie / per sensazione di perdita / ondeggiano le vittime […] / sbilenco il diritto delle procedure : poi sembra che la ripresa sciolga dubbi a favore dell’eroe blasfemo» (pp. 72-73).
Come, allora, non con-dividere questa ribellione blasfema della speranza disperata in un tempo in cui il finale di partita capitalistica si gioca sull’asservimento, lo sfruttamento e l’indebitamento infinito dei corpi?

Antonino Contiliano - in TP24.it, 30 luglio 2018 / in Itacanotizie.it, 31 luglio 2018

Intermedialità

di Marcello Carlino


Se si concorda con le teorie di Benjamin sopra la tecnica, che non va demonizzata, ma assunta in positivo, per giusta ten-denza, come strumento necessario, ed anzi chiave di volta, per usi alternativi, né culturalmente gregari né ideologicamente arresi all’esistente, e per architetture diversamente funzionali di quel che si può definire, con lui, apparato di produzione delle arti; se si accetta del grande filosofo dei Passages questa utopia in pro-getto – e non vediamo come si possa ricusarla dovendosi resiste-re attivamente alla stretta alienante di una civiltà globalizzata che si, e ci, appiattisce su di una sola dimensione, quella del consumo – allora l’intermedialità è una risorsa straordinaria e segna una via di grande interesse, forse la via migliore verso un futuro che l’utopia ci consiglia di non smettere di pensare migliore. 
L’incontro tra i linguaggi, per la mediazione e sotto gli auspici della tecnica, così che la loro vitalità ne risulti accresciuta e arricchita la loro capacità di conoscenza: è questa la prassi che porta a identificarne proprietà, articolazioni e fattori e determina i presupposti perché si adoperi e non si subisca invece, finendone usati ed espropriati, la lingua della comunicazione: è questo il modo per difendersi dalla sedazione continua a cui la apparente plurilinguisticità dei testi massmediologici ci sottopone: ed è l’uscita verso il campo libero della parole come atto che mette il sigillo di una identità ritrovata e professata sopra l’impianto della langue e la dialettizza, riavviando lo scambio serrato tra il parti-colare e il generale, l’individuale e il condiviso, il codificato e il non ancora statuito, l’espressione e la convenzione: ed è configu-razione di giusta tendenza (e per converso di giusta qualità) oggi che il convenuto pare inamovibile e il codificato coercitivo e omologante, mentre il condiviso e il generale vengono modellati con proditoria mistificazione sugli pseudo-valori sanciti dai son-daggi e sui principi fondamentali (su di una costituzione per uo-mini ad una dimensione: un articolato di leggi ad personam e di interessi privati) di una società di massa. 
Eccola l’intermedialità, appunto, di cui un precedente e un ganglio teorico è il montaggio, caro a tutte le più grandi avan-guardie (e intendiamo il montaggio nell’accezione sinestetica in cui lo rilegge Ejzenštejn): non l’allineamento o la contaminazione di taglio postmoderno, non il concorso a gerarchia prestabilita e a graduatoria chiusa, non la turnazione economica e strumentale dei linguaggi così che uno prevalga e gli altri gli facciano corona, non una sintassi preordinata con significati prescritti a corredo, l’intermedialità è più della (è altro dalla) multimedialità (multi-mediale si è soliti definire la comunicazione nell’odierno clonato e ottenebrante villaggio globale), è convegno sinestetico in cui flussi plurilinguistici e plurisemiotici circolano scambiandosi va-lenze e proprietà, è fittissima interlocuzione di codici e di forme espressive, è per ciò uso della tecnica non nel verso di una sem-plificazione del testo e di una rastremazione del messaggio, ma nel verso di una complicazione, di un rinforzo polisenso, di una protesi mobilizzante e di una amplificazione della performatività delle scritture, di un coadiuvante della espressività e della ge-stualità e dunque della concretezza materiale, “organica” dell’evento artistico restituito come “corpo” pulsante e vitale. Una tecnica “stornata” contro la tecnica a disposizione di una società dei simulacri e del consumo: di una tale riconversione la pratica intermediale è attrice protagonista e garante, in virtù di un riconoscimento dell’energia e del gradiente utopici racchiudi-bili nell’arte e da essa sprigionabili e in nome del suo valore col-lettivo e pubblico, specificamente politico.
Giovanni Fontana è un poliartista intermediale; in ciascu-na delle esperienze che egli ha condotto, l’intermedialità è la dominante. È il filo rosso che le attraversa tutte: le performances di voci in movimento come le installazioni e le ideazioni e mes-sinscene di pièces teatrali, le tavole di poesia visiva come i libri d’artista, la poesia sonora alla stessa stregua della poesia lineare. In tutte la tecnica è il presupposto: dalla tecnica artigianale della rielaborazione dei materiali poveri (con esiti di arte concreta) che veicola il significato di una manipolabilità e di una possibilità di riuso, di una riproducibilità come ipotesi di una esteticità diffusa, alla tecnica dei server sonori che sfibra e decostruisce e riverbera e raddoppia suoni e voci. 
Siamo così giunti al primo punto. L’intermedialità di Fon-tana suppone, in premessa, la tessitura di un rapporto biunivoco di spazio e di tempo nella rappresentazione-evento, che – né sol-tanto l’una né soltanto l’altro – è congiuntamente evento e rap-presentazione. […] E se il testo tende ad una compiutezza li-nearmente definita, […] già nelle prime prove di abrasione lettri-stica del rigo-sequenza si ha il rimando al motivo-spartito che ri-chiama tanto una sonorità virtuale, o una vocalità mentale, quan-to la prassi incipitaria del pre-testo, che richiede un prolungamen-to e una proiezione dallo spazio nel tempo dell’esecuzione e della variazione possibile. E viceversa il tempo del suono, come in tut-ta la musica d’avanguardia, nelle sue video-opere ha bisogno di progettarsi in relazione ad uno spazio e di localizzarsi come ur-banisticamente. 
E poi si tratta davvero, in Fontana, d’una funzione inva-riante: non v’è suo testo, e dunque testo intermediale o di inter-medialità poliartistica, che si sottragga ad una relazione interte-stuale e che non sviluppi una sequenzialità macrotestuale: e cioè il reimpiego e la citazione (le sperimentazioni di scrittura sineste-tica hanno sempre una diatesi intertestuale e costituiscono prova della intertestualità di base ad ogni operazione artistica, che i teorici hanno ormai assodato), nel lavoro di accostamento e di ritessitura e di sviluppo proiettivo verso il nuovo (nel lavoro di decontestualizzazione e di ricontestualizzazione) che Fontana pone in essere, si sistemano su di un asse diacronico che pretende la misura più ampia e il tempo di previsione del macrotesto. Il “qui ed ora” dell’evento si rassoda nell’impegno di un testo che più consiste, che più si “ferma” nello spazio (che ha una “consi-stenza” maggiore o una minore occasionalità o volatilità) e che, contemporaneamente, evoca e indica una più ampia durata, una più lunga e diramata disponibilità e articolabilità nel tempo.
Insomma le opere di Fontana, comprese le sue perfor-mances, si dispongono nel cuneo tra piano sincronico e piano diacronico, o spazio e tempo; tra le ascisse e le ordinate del frammento e dell’intero, del puntuale e dell’esteso, dell’evenienza episodica e del racconto, della particolarità occa-sionale e dell’architettato, dell’improvvisazione e della progetta-zione.
Eccoci giunti, così, ad un secondo punto di grande rilie-vo. Le scritture e le tavole e gli eventi performativi di Fontana non si configurano mai, come invece per altri accade e come ac-cade paradossalmente nella società mediatica odierna (dove l’apparente pervietà concessa all’informazione nel villaggio glo-bale funziona, alle corte, come cancellazione e disdetta di una vera informazione), quali notifiche di paradossali e per la verità improbabili liberazioni dai significati, con promozione congiunta (con una conseguente valorizzazione metafisica) dei significanti puri. Implicano, al contrario, itinerari di semantizzazione rinnova-ta: attraverso la protusione spazio-temporale del corpo (dicevamo “corporei”, “materiali”, occupati dal corpo e coincidenti col cor-po i testi performativi e no di Fontana: che contravvengono, per-ciò semanticamente alternativi, alla “scorporata” e virtuale socie-tà dei simulacri nostra contemporanea) e attraverso la sequenzia-lità progettata e architettonicamente disposta delle escussioni plurilinguistiche (e ciò vale sia quando si prende a tema di riesa-me critico la patinata civiltà dei consumi; o quando si erotizza per decostruzione e ricomposizione un immaginario de-erotizzato; o quando si batte insistentemente sulla qualità ideolo-gica del fare; o quando si passa a contropelo il mondo politico-economico e la logica del dominio che stiamo subendo e li si pre-stano e li si offrono – nel pre-testo, intanto, con la sue promesse contenute in accentuate escursioni tipografiche e in filiere di rei-terazioni – alla voce che evidenzia e demistifica e si torce profi-lando lo spazio dell’alterità). In una risemantizzazione e in una semantizzazione antagonista stanno l’essenza e la necessità e l’utilità (e la prospezione di una via futura progettata in utopia) dell’intermedialità. Alla quale Fontana impronta l’intera sua pro-duzione poliartistica.

Marcello Carlino - in Discrasie, p. 133-136