GIOVANNI FONTANA'S TEXTS

IL CORPO SONORO

Giovanni Fontana
IL CORPO SONORO E IL FILO DELL’ASCOLTO

Paul Zumthor, profondo conoscitore di letteratura medievale sia nei suoi aspetti testuali che in quelli modali, dove “il testuale domina lo scritto; il modale, le arti della voce”,[1]  chiarisce che “nel momento in cui, durante la performance, il testo composto per iscritto diventa voce, una mutazione globale lo investe e, per tutto il tempo in cui prosegue l’audizione e in cui questa presenza dura, ne modifica la natura. Al di là degli oggetti e dei sensi a cui fa riferimento, il discorso vocale rinvia all’innominabile: la parola non è la semplice esecutrice della lingua, che non realizza mai pienamente, che infrange, con tutta la sua corporeità, per il nostro imprevedibile piacere. È così che la voce interviene nel e sul testo, come dentro e su una materia semi formalizzata, con cui plasmare un oggetto mobile, ma finito”.[2]  Esplorando specificatamente le frontiere della poesia sonora, lo stesso Zumthor scrive: “Il vocema diviene nello stesso tempo suono, parola, frase, discorso, inesauribilmente; e lo diventa nella propria continuità ritmica”.[3]  E, soffermandosi sul nostro lavoro, così prosegue: “È così che si può, con Giovanni Fontana, assicurare che la poesia non solo è con la voce e nella voce, ma dietro la voce, all’interno del proprio corpo, da dove vengono dominati il canto, i sospiri, i soffi, gli ansiti e tutto ciò che, al di qua e al di là del dire, è segnale dell’inesprimibile, coscienza primordiale dell’esistenza. Giovanni Fontana parla in questo senso di poesia dilatata”.

In questa direzione, la poesia, scritta o dipinta che sia, pur nella sua stesura completa e definitiva, può essere considerata come una poesia interrotta, come un pre-testo da utilizzare per aprire un varco verso altre dimensioni.[4]  Dalla parola, dal colore, dal segno bidimensinale potrà scaturire un poema polidimensionale che includerà il suono e l’azione, un poema che sarà scritto dinamicamente e si distenderà nel tempo.
Ma al di là dell’infinita gamma di relazioni tra la scrittura e gli altri universi linguistici, al di là della stessa carica dinamica della scrittura, la poesia dello spazio e del tempo ruota sulla vocalità, sull’energia vitale della voce, sulle sue qualità poietiche, determinando forme sonore strutturanti, forme sonore di poesia capaci di catalizzare attorno a sé la girandola magica degli altri elementi in un tessuto pluridimensionale di interconnessioni.
[…] 
Osserva Corrado Bologna: “Prima ancora che il linguaggio abbia inizio e si articoli in parole per trasmettere messaggi nella forma di enunciati verbali, la voce ha già da sempre origine, c’è come potenzialità di significazione e vibra quale indistinto flusso di vitalità, spinta confusa al voler dire, all’esprimere, cioè all’esistere. La sua natura è essenzialmente fisica, corporea; ha relazione con la vita e con la morte, con il respiro e con il suono, è emanata dagli stessi organi che presiedono all’alimentazione e alla sopravvivenza. Prima di essere il supporto ed il canale di trasmissione delle parole attraverso il linguaggio, dunque, la voce è imperioso grido di presenza, pulsazione universale e modulazione cosmica tramite le quali la storia irrompe nel mondo della natura: di una simile Metafisica della Voce è testimonianza in quasi tutte le culture antiche ed anche moderne, che all’emanazione sonora annettono un valore demiurgico, fondatore, addirittura iatrico-taumaturgico, incastonandola nell’orizzonte sacrale e individuando nel luogo dell’Origine lo spazio che essa colma” .[5]
Il flatus, la colonna d’aria che fa vibrare la laringe penetra nel flauto di Marsia e genera un suono così simile alla voce umana, tanto dolce quanto ammaliante, sicché le sue prestigiose qualità finiscono per suscitare l’ira di Apollo, che teme il confronto; considera la sfida come un insulto alla sua capacità artistica e al suo potere e finisce per soffocare quella voce; ma con un gesto che ne sancisce per sempre la potenza: la voce è coscienza: questa è la sua forza:  e per questo sarà sempre temuta.
La voce di Marsia, scorticato vivo da Apollo, si perde nei sussulti dei suoi nervi messi a nudo, nelle pulsazioni delle vene, nelle viscere palpitanti; ma non si perderà quella di Orfeo, sommo cantore, anch’egli vittima di una morte violenta che non farà che accentuare la mostruosità della sua voce.
D’altra parte, Edipo sconfigge la Sfinge dopo averne sfidato l’enigmatico e mostruoso canto. La Sfinge cantava “come un oracolo il suo indovinello”. Lo dice uno scoliasta ad Euripide [Le Fenicie] e ce lo ricorda Corrado Bologna, il quale sottolinea che “Il Mostro parla ‘cantando’ (ma anche il poeta ‘canta con voce di cicala’, secondo Platone): è un linguaggio ominoso, la voce di una sapienzialità originaria, che annunzia l’avvenire, producendo spesso un’atmosfera di terrore”.[6]
“Il poeta ed il sapiente delle origini, - prosegue Bologna - spesso del tutto mitici,  (come quell’Orfeo, quel Museo, quell’Enigma dal ‘nome parlante’), sono miracolosi personaggi ai confini tra naturalità ed umanità, semiferini e semiumani. Conoscono la magia del canto e l’espressione degli animali; il loro linguaggio è ambiguo, enigmatico, minaccioso, ingannatore e veritiero insieme, ed appartiene in sostanza allo stesso livello di comunicazione (e di sapere) della Sfinge, di Circe che ‘canta con bella voce’ e conosce l’arte di trasformare gli uomini in bestie, delle Sirene (Aglaope ‘dalla voce splendida’, Telsiope ‘l’incantatrice’, Pesinoe ‘la seduttrice’), compagne della regina infernale Persefone secondo Apollonio Rodio, figlie della ‘profondità terrestre’ secondo Euripide; il loro canto ‘di miele’ attrae verso la morte con la promessa dell’onniscienza”.
È estremamente interessante il percorso che Corrado Bologna traccia per inseguire la parola alata del poeta, legata al ritmo, al suono, nel labirinto della sua mostruosità. Quella parola è ambigua, bifronte, oscura e splendente, è apotropaica, è rivelatrice e ingannevole, è profetica e dotata di potenza magica, ama legarsi ai rebus, agli indovinelli, agli scioglilingua, alle litanie, alle formule magiche, agli scongiuri, come pure agli incastri misteriosi delle geometrie di parole che si connettono in modo sorprendente e straordinario di cui il quadrato “sator arepo tenet opera rotas” non è che l’esempio più noto.[7]
Secondo Marcel Detienne “la voce di Orfeo comincia al di là del canto che recita e racconta. È una voce anteriore alla parola articolata […] Il canto di Orfeo sgorga come una magia originaria e si racconta negli effetti che produce prima ancora che nel suo contenuto, e innanzitutto nel suo valore centripeto, che riunisce attorno alla voce gli esseri animati ed inanimati della terra, del cielo e del mare. Una voce estranea alla ristretta cerchia degli ascoltatori, ma attorno alla quale, con immensa gioia, si riuniscono gli alberi, gli uccelli, i pesci” .[8] Si tratta di un canto che muove e sommuove, un canto che organizza e costruisce; un canto che imprime ed esprime energia, e che sopravvive anche oltre la vita dello stesso poeta, quando la sua testa distaccata dal corpo smembrato dalle donne tracie depone la sua voce sulle rive dell’isola di Lesbo.
Scrive ancora Detienne che “La magia di Orfeo continua nel brusio della sua biblioteca ed i vasi e gli specchi ci parlano della compresenza della voce e dei libri” [...]. La magia dei libri è potente tanto quanto il canto e trionfa sulle deleterie forze dell’oblio; chi possiede la scrittura e legge Orfeo non conoscerà mai la morte propria degli altri”.[9]
È come se la parola, sia detta che scritta, avesse una forza non solo evocatrice, ma strutturale, determinatrice: tanto che incantamenta e carmina assumeranno un ruolo molto importante nel mondo antico: i bona e mala carmina, saranno  apprezzati e ricompensati o temuti e condannati per il loro ruolo attivo.[10]  Il canto magico avrebbe poteri ineluttabili, così come il gesto poetico darebbe consistenza all’ineffabile. Di tali concezioni si hanno labirintici riscontri nell’intero arco della storia dell’uomo, da nord a sud, da oriente a occidente: la parola e il suono che la sostiene hanno poteri taumaturgici, rivelatori, fondanti e fecondanti: nelle voces magicae delle culture classiche, negli incantesimi assiri, caldei, egizi, negli esorcismi della cristianità popolare, nelle salmodìe degli incantatori di serpenti nei souks del Nord Africa, nelle intonazioni che i pastori della Foresta nera mormorano nell’orecchio dei tori condotti al mercato. L’importante è che la formula sia sempre correttamente pronunciata, come nei riti dei sacerdoti egiziani Mâ-Krôu, i “giusti-di-voce” [11] o come nel caso del brahmavid indiano, cioè il “conoscitore della parola”, che diventando tale attraverso lo studio dell’Atharvaveda,[12] poteva modificare la realtà purché pronunciasse correttamente le brevi formule contenute nel libro magico; poteva porsi così alla stregua del creatore del mondo. Nella storia della magia e della letteratura magica la parola e le cose, la voce e il mondo, si rincorrono, si scambiano ruoli, si confondono, si trasformano secondo l’anello dell’ouroboros. Se per Cornelio Agrippa, mago, alchimista, astrologo e chiromante, le imprecazioni umane imprimevano naturalmente le loro forze nelle cose esteriori,[13] per John Dee lettere, parole e suoni diventano “mantram” e la loro vibrazione sprigiona energie cosmico-evocative.
D’altra parte nella Genesi ebraica il primo atto della creazione è compiuto attraverso il pronunciamento di una formula: jehi or. La parola è ciò che crea, la parola è ciò che compie. E sarà Walter Benjamin a puntualizzare che la creazione divina si completa solo quando le cose ricevono il loro nome dall’uomo.[14]
[…]
Scrive Paul Zumthor: “È ben strano che, fra tutte le nostre discipline istituzionali, non esista ancora una scienza della voce.[...] Il suono, l’elemento più sottile e più duttile del concreto, non ha forse costituito, e non costituisce ancora, nel divenire dell’umanità come in quello dell’individuo, il luogo d’incontro iniziale tra l’universo e l’intelligibile? La voce è infatti voler dire e volontà di esistere. Luogo di un’assenza che, in essa, si trasforma in presenza, la voce modula gli influssi cosmici che ci attraversano e ne capta i segnali: è risonanza infinita, che fa cantare ogni forma di materia come attestano le tante leggende sulle piante e sulle pietre incantate che, un giorno, furono docili”.[15]
“Il soffio della voce è creatore”. Il suo nome è spirito: l’ebraico rouah, il greco pneuma, il latino animus. “Nella Bibbia, il soffio di Yahweh dà vita all’universo come dà vita al Cristo: si identifica con il fumo del sacrificio. Queste analogie si conservano nell’iconografia esoterica del Medioevo”.[16]
Nella poesia orale e in tutte quelle forme in cui i suoni del corpo svolgono un ruolo espressivo fondamentale, la voce si pone come elemento vitale, come corpus e spiritus, come anima e animus, come ricongiungimento di Eros e Thanatos, come flatus androgineo; come energia organizzatrice; come catalizzatore metamorfico; come soffio vivificante; come alito trasformatore; come pietra filosofale.
[…]
Va ricordato che l’alchimista era chiamato poeta. Berthelot osserva che Olimpiodoro, alchimista e filosofo, era designato come ‘poietes’, vale a dire ‘operator’ corrispondente alla parola ‘poiesis’ che si riferisce alla ‘Grande Opera’. Arturo Schwarz precisa che ‘poietes’ non significa semplicemente ‘operator’, ma pure ‘poeta’. E anche gli altri termini derivati dalla stessa radice possiedono un duplice significato: ‘poiesis’, creazione e poesia, ‘poiema’ qualcosa di fatto e poema. Ricorda Schwarz che la duplicità del senso si ritrova anche nel sanscrito, dove ‘kartr’, corrispondente a ‘operator’ e ‘kavi’, poeta, hanno la stessa radice.[17] La Grande Opera designata come ‘poiesis’ è quindi contemporaneamente teoria e applicazione, conoscenza e sperimentazione, poesia e azione. Ci ricorda Marc Augé che in molte lingue anche il termine ‘magia’ ha una radice che significa ‘fare’.[18]
Il poeta pre-testuale, dunque, fa; plasma; la sua voce in-forma operando una sintesi di opposti che determina una realtà altra; egli coniuga scrittura e vocalità, immobilità e movimento, azione e progetto, oggetto e soggetto. La poesia pre-testuale appare, dunque, doppia, inquadrandosi perfettamente in una dimensione alchemica. Nella tradizione ermetica il mondo è sintesi di contrari; Paracelso, mago e alchimista, afferma che ogni cosa è doppia.[19]  E il frutto della “coniunctio oppositorum”, il “filius philosophorum”, è il Rebis, l’androgino immortale, l’essere doppio. Piedi a terra e braccia levate in alto, verso il cielo, l’androgino, l’orante archetipico, l’Y presente in tutti gli alfabeti conosciuti, partecipa del principio uranico e di quello ctonio.
Ma già Aristotele asseriva che “un carattere specifico della sostanza, benché identica e numericamente una, è di essere costituita in modo tale da accogliere i contrari mediante un processo di autotrasformazione.”
Al genio del poeta è demandata la sincronizzazione dei processi di congiunzione (performance) affinché possano essere liberati i valori più alti delle forme. Il poeta alchimista, alle prese con la trasmutazione della materia alfabetica e verbale, si cimenta nella ricerca delle possibili facce della sostanza, per perseguire il fine ultimo della nascita dell’Y, pietra filosofale, aurea apprehensio, axis mundi.
Il poeta trasforma così parole e cose, come il contadino tramuta l’uva in vino e le spighe in pane bianco; ma tutto si confonde nella ruota del tempo e dello spazio.
[…]
E a proposito di tempo e spazio Philippe Quéau ci offre un interessante confronto tra le metafore classiche della scena e del labirinto: “La ‘scena’ libera agli occhi di tutti, in piena luce, l’evidenza del punto di vista, la semplicità della prospettiva, la garanzia della geometria. Il ‘labirinto’ appartiene all’ombra, all’oscuro, al segreto. La bestia vi si nasconde, il mostro rode, il ‘filo’ che ci potrebbe salvare si annoda in misteriosi intrecci. La ‘scena’ consente la convergenza degli sguardi, propone loro un ‘fuoco’, un punto fisso nello spazio, dimora tranquilla. Il ‘labirinto’ abolisce lo sguardo, confonde l’orecchio, autorizza solo la presenza tenue del filo”.[20]  Ma tra la seduzione della scena e la strategia di decezione di una concezione multicentrica c’è posto per una concezione intermediaria dello spazio-tempo: quella dell’odissea. È ancora Quéau che ci suggerisce di ripensare ad un Ulisse errante, vagabondo, solitario, perché “oggi gli spazi logico-matematici sono isole, arcipelaghi, dei quali siamo invitati a redigere mappe forse lacunose ma fedeli ai nostri desideri”.[21]
Tra interazione e iterazione si affacciano voci alterate, nuove generazioni di voci. Le tecnologie hanno consentito di evidenziare i suoni impercettibili del corpo, di amplificare il flatus più recondito e, addirittura, di generare nuovi universi vocali attraverso la vastissima gamma degli effetti dovuti all’utilizzazione del microprocessore o attraverso l’ampio quadro delle tecniche digitali: dalle sovrapposizioni ai montaggi, dalle accelerazioni alle variazioni timbriche e di scala, dai riverberi agli echi, fino al totale sconvolgimento dei diagrammi acustici iniziali, attraverso manipolazioni di frequenze e ampiezze. Si è passati, quindi, dall’onomatopea alla vocalità elettronica, che apre al linguaggio ampi orizzonti acustici, lontanissimi da qualsiasi arcaico effetto mimetico. Ma si continua a ricercare, porgendo l’orecchio, con la certezza che la poesia nasce, muore e rinasce nella voce: la voce nasce, muore e rinasce nel suono e si continua ad indossare la propria maschera sonora, dietro la quale il suono viene articolato come uno degli aspetti fondamentali del linguaggio.
Siamo nel mare delle tecnologie come Ulisse era nel suo mare. Ma la voce delle Sirene ci attrae finché non abbiamo avuto la forza di ascoltarla. Il loro incanto, la loro seduzione irresistibile, tutta la potenza della loro fascinazione sono sprigionati solo dal mito delle loro voci, dall’ascolto della descrizione delle loro qualità; e la paura di naufragare sulla barriera di scogli ne sostiene l’immagine; ma in realtà basta raccogliere il coraggio di ascoltare per superare perfettamente l’ostacolo.

NOTE

1. P. ZUMTHOR, La lettera e la voce, Bologna 1990.
2. Ibidem.
3. P. ZUMTHOR, Poesia dello spazio, in "La Taverna di Auerbach", n° 9-10, 1990.
4. Scrive Moles che "…la poesia è ai confini tra la parola e il canto". A.A. MOLES, Analisi delle strutture del linguaggio poetico ai differenti livelli della sensibilità, in AA.VV. Estetica e teoria dell'informazione (a cura di U.ECO), Milano, 1972.
5. C. BOLOGNA, Flatus vocis, Bologna 1992.
6. C. BOLOGNA, Mostro, in "Enciclopedia Einaudi", Torino 1979.
7. Cfr. G. R. HOCKE,  Il Manierismo nella letteratura, Milano 1965.
8. M. DETIENNE, La scrittura di Orfeo, Roma-Bari 1990.
9. bidem.
10. Cfr. M. ADRIANI, Italia magica, Roma 1970.
11. La formula mal detta non solo non raggiunge lo scopo, ma può ritorcersi contro colui che ne ha snaturato il testo, il ritmo o l'intonazione. Cfr. M. BOUISSON,  I riti della magia, Milano 1971.
12. Antico libro indiano databile tra il 1000 e l'800 a.C. contenente una raccolta di formule magiche, introdotte da un incantesimo per ottenere la perfetta conoscenza dei suoni della lingua sanscrita. Si veda a tal proposito il saggio di S. SANI, La magia della parola nell'India antica, in "Bérénice" n° 14, 1997.
13. C. AGRIPPA, De occulta philosophia, con il titolo Le arti magiche, Genova 1988.
14. Cfr. F. RELLA, Il Silenzio e le parole, Milano 1981.
15. P. ZUMTHOR, La presenza della voce, cit.
16. Ibidem.
17. A. SCHWARZ, L'immaginazione alchemica, Milano 1979.
18. M. AUGÉ, cit.
19. PARACELSO, Paragrano (a cura di F. MASINI), Bari 1973.
20. PH. QUÉAU, Alterazioni, in La scena immateriale, Genova 1994.
21. Ibidem.

 

Giovanni Fontana
LE DINAMICHE NOMADI DELLA PERFORMANCE


ogni singola parola è una tempesta di gesti
Adriano Spatola

Il lavoro del performer è costruito pazientemente sulle oscillazioni generate dall’attivazione del rapporto interno/esterno, nel senso che si pone come momento dialettico tra spiritus e corpus, tra soggetto e oggetto, tra immaginazione e realtà, tra pensiero e azione, tra privato e pubblico, tra locale e globale, tra particolare e totale, tra il progetto e la sua realizzazione.
Questa dinamica fluttuante sostiene il continuum di materia ed energia entro il quale è faticosamente costruita l’azione.
La performance è, pertanto, una struttura pulsante, luogo della confluenza di più discipline artistiche, caratterizzato dall’intersezione dei linguaggi, dalla polidimensionalità e non dalla mera sommatoria degli elementi.  Corpo, gesto, rumori, suoni, luci, colori, oggetti e architetture entrano in gioco con funzione interlinguistica.
L’energia del corpo è spesa per liberarsi da coordinate e riferimenti imposti e per generare situazioni nuove, provoca la continua rottura degli equilibri, sempre temporanei, favorisce la costruzione dei sistemi interlinguistici e intermediali che condizionano la dinamica degli elementi di volta in volta considerati. Il performer realizza in situ dispositivi elastici che hanno la capacità di relazionarsi allo spazio geometrico e a quello socio-culturale. Le tensioni poietiche fanno leva sulla libera contaminazione, coniugando le risorse offerte dal patrimonio tecnico a quelle della memoria e del corpo, attraverso una concezione dell’arte dove ogni particula è portatrice di senso solo in quanto riferita alla dimensione totale di un’opera che si vuole come concentrazione di energie. Tutto è in funzione del tutto nell’ottica dell’azione e non dell’oggetto artistico materiale. Si potrebbe parlare, perciò, di una sorta di entità transmateriale innervata da linee-forza che provocano tensioni inattese e vibrazioni del senso. È un po’ quello che accade nelle particelle subatomiche secondo la “teoria delle stringhe”,  dove si ipotizza che tutta la materia e tutte le forze nascano da un unico costituente di base.
Secondo questa teoria le particelle subatomiche non sono puntiformi, ma sono costituite da filamenti unidimensionali (stringhe) infinitamente sottili che oscillano freneticamente. Queste vibrazioni continue, che hanno ampiezze e frequenze caratteristiche, si manifestano come “particelle”. Ma la cosa più sorprendente è che la loro massa e la loro carica siano determinate dalle differenti oscillazioni. Da ciò deriva che le proprietà fisiche non sono che la conseguenza diretta di quelle oscillazioni; sono, per così dire, la musica delle stringhe. Per le forze vale lo stesso principio, cosicché ogni particella mediatrice di forza è associata ad una vibrazione specifica.
Insomma, sia le forze, sia le particelle elementari sono fatte della stessa ‘materia’. 
Nella performance le dinamiche interne ed esterne, le interazioni rivolte verso il proprio baricentro come verso la periferia, comportano l’esigenza di un’incessante esplorazione, attività che nella sua reiterazione finisce per coincidere con la trasgressione. Ma quello di trasgressione, infatti, è un concetto che implica pulsioni indagatrici. Esplorare, significa spesso dover superare frontiere precluse, passaggi interdetti. Oltrepassare questi confini “invalicabili” è compiere un gesto di sfida, sia dal punto di vista artistico che politico. Del resto la performance nasce come evento fortemente oppositivo.
Con essa si scardinano le regole del mercato dell’arte, quelle del linguaggio, quelle dei comportamenti socio-culturali.
L’atto performante comporta momenti di vera e propria destabilizzazione dei rapporti istituzionalizzati, siano essi di tipo linguistico, spaziale, temporale, mediatico, per il fatto che richiede sempre una riformulazione di codici e categorie. L’obiettivo è quello di individuare nuove potenzialità nelle pratiche artistiche scardinando convenzioni ed eludendone i condizionamenti, ma, nello stesso tempo, utilizzando al meglio le tensioni positive che il luogo dell’azione emana: luogo caratterizzato, ovviamente, da valenze non solo spazio-temporali, ma anche geografiche ed etniche.
E qui risiede uno degli aspetti più interessanti di questa pratica artistica, non solo per i risvolti di carattere tecnico-linguistico, ma anche per quelli più specificamente politico-culturali. Il risultato poietico della performance, infatti, varierà in ragione del grado di interattività con il suo pubblico, che, in ogni modo, avrà differenti percezioni al variare della regione geografica e delle coordinate culturali. Ciò contribuisce a determinare l’unicità del momento performativo: la performance si pone  sempre come evento irripetibile che si carica ogni volta di nuovi valori, al di là delle barriere delle lingue e delle culture. Ovviamente, sta al performer il compito di ri-formulare, nelle diverse occasioni, criteri e misure di proposizione, anche confidando sulle sue qualità intuitive e sulla propria capacità comunicativa.
In effetti, attraverso il suo gesto creativo, egli indaga ed interpreta una realtà sempre differente; innesca un processo di comunicazione che, in presa diretta, si riflette sull’evoluzione della sua stessa azione, condizionandola.  E questo accogliere i condizionamenti, avendo cura di evitare ogni stereotipo, può essere spinto a tal punto da instaurare significativi rapporti di collaborazione con il pubblico, fino al suo pieno coinvolgimento e all’assegnazione di specifiche funzioni performative.
Insomma, la performance è un tessuto di relazioni ad ogni livello; è l’interminabile viaggio dell’artista dentro e fuori di sé alla ricerca di dettagli e frammenti di realtà da organizzare in nuove realtà perennemente in divenire; è un sistema dinamico sostenuto dal labirinto di ogni possibile rapporto tra sé e il mondo. In sostanza quello del performer è un atteggiamento nomade che rinvia a quella “création vagabonde”, su cui si sono soffermati scienziati come René Thom, che vive e si organizza sul concetto di sospensione, intesa come dilazione del momento risolutivo, come differimento dell’atto chiarificatore, pur avendo coscienza del fatto che un momento conclusivo deve pur esistere ed è, comunque, raggiungibile.
Italo Calvino, nella sua “lezione” sulla molteplicità  ricorda che la passione conoscitiva di Gadda lo spingeva a vedere il mondo come “un sistema di sistemi”, come un groviglio inestricabile da rappresentare senza attenuarne la complessità. Il concetto ben si sposa alla scelta del performer, al suo impegno dinamico, all’intelligenza mobile dei suoi sensi, al suo continuo ri-cercare, al suo guardare e al suo essere guardato, al suo dire e al suo ascoltare, alla sua voglia di perdersi negli spazi piccoli e grandi della natura e della cultura, al procedere di sorpresa in sorpresa nel suo unico grande racconto e, soprattutto, al suo nomadismo creativo che apre ogni volta una nuova porta sul mondo, avendo la chiara coscienza che il mondo è fatto di infiniti possibili dettagli e che in ogni dettaglio è possibile aprire una nuova porta su un nuovo mondo. È così che un gesto artistico può efficacemente trasformarsi in gesto politico, provocando la fusione della funzione estetica con quella etica, come più volte è accaduto nelle avanguardie e nelle neo-avanguardie del Novecento: dal Futurismo al Cubofuturismo russo, da Dada al Lettrismo, dai Situazionisti a Fluxus, ecc. Le radici della performance possono essere rintracciate molto lontano, ma è negli anni del secondo Novecento che si guarda alle esperienze pionieristiche delle avanguardie storiche con rinnovato interesse e si consolida, sulla scorta degli stimoli anche un po' carichi delle mitiche energie che di lì provenivano, l'abitudine all'interlinguaggio. Rispetto ai padri dell'avanguardia, le nuove generazioni di artisti possono contare su mezzi più adeguati e più efficaci per operare intersezioni tra le arti: primi fra tutti, i nuovi media, verso i quali, però, bisogna rivolgersi con atteggiamento scaltro e demistificatorio. Eugenio Miccini, tra i primi all’inizio degli anni Sessanta a praticare in Italia forme di poesia d’azione nell’ambito del Gruppo ’70 (con Lamberto Pignotti, Giuseppe Chiari ed altri artisti provenienti da ambiti disciplinari disparati) scriverà: “La poesia nuova, sonora e/o tecnologica viene anche dai linguaggi tecnologici, cioè dai sistemi di segno che da quei mezzi (e dalle loro organizzazioni di diffusione) sono nati. E qui sta proprio l'insidia: questi nuovi media hanno attuato una mutazione antropologica ed una relativa colonizzazione, da parte del Potere, di questi mezzi e di queste semiosi. Perciò l'iconosfera e la fonosfera urbana non possono tenersi separate dall'universo delle comunicazioni sociali, nel momento in cui queste agiscono con una simultaneità e con un sinergismo totali. L'occhio e l'orecchio sono i sensi pubblici, diceva John Cage. Ma non sono il senso sociale, in quanto non hanno in sé che passività di fronte all'azione totale che viene offerta sullo spettacolo del mondo come percezione. Nella nostra «società dello spettacolo», quei profeti - per così dire - che sono gli artisti, devono disattivare, criticandoli, i gerghi tecnologici, che sono la voce del padrone; devono riattivare il pubblico offrendogli l'esempio di una disobbedienza e di una trasgressione che dobbiamo praticare tutti insieme. La mano, il corpo, la parola e le forme spurie logoiconiche, i rumori concreti e perfino la musica, l'assetto urbano e i profumi e tutto sono stati normalizzati e codificati in maniera perversa”. 
George Maciunas elabora nel 1961, a New York, il progetto che dà vita al movimento “Fluxus”. Tra poesia, musica, pittura, scultura, teatro non ci sono più differenze. L’opera è un evento totale che ingloba in sé tutte le discipline possibili e che avvolge il tempo e le dinamiche del quotidiano; l’arte si pone come flusso coincidente con quello della vita. L’anno dopo, nel primo “Fluxus Internationale Festspiele” a Wiesbaden, si distingue il giovane Dick Higgins, che inizia a seguire con particolare attenzione i fenomeni dell’interattività elaborando il concetto di intermedium.
Uno dei passaggi fondamentali della ricerca artistica novecentesca è caratterizzato dalla sostanziale integrazione dei linguaggi e Higgins evidenzia tale traguardo, mettendo in rilievo la differenza tra mixed-medium, termine riferito ad un oggetto artistico in cui il fruitore sia in grado di distinguere i vari aspetti linguistici (verbale, visivo, sonoro, ecc.), e intermedium, termine riferito esclusivamente ad un'opera in cui l'integrazione sia completamente attuata.  Qui, i diversi elementi si fondono in un unicum che non consente letture differenziate; così, per esempio, una poesia sonora è costituita da un evento artistico dove testo, voce, suono sono strettamente fusi insieme, tanto che il suono è direttamente determinato dal testo, attraverso la voce, e non si pone come commento del testo o come sostegno della voce che propone il testo. Negli anni Sessanta, le implicazioni teoriche dei concetti di intermedium, intercodice, interlinguaggio moltiplicano i percorsi di ricerca, sia relativamente alle tecniche che alle poetiche. Le attività artistiche sfumano l’una nell’altra e si concentrano in zone-limite che favoriscono nuove tipologie linguistiche ed espressive.
Per molti settori di sperimentazione si aprono nuove ed insospettate prospettive di sviluppo: all'idea di categoria viene sostituita quella di continuità, non trascurando le esperienze storiche dell'avanguardia e, nello stesso tempo, considerando attentamente la lezione di chi, come John Cage, aveva integrato fin dai primi anni Cinquanta il proprio lavoro con alcuni aspetti della tradizione futur-dada.
La pratica del conflitto dei linguaggi favorisce la messa in gioco di dati dissonanti.
Il taglio critico, secco e deciso, contro il sistema dell’arte alimenta l’attività artistica, fondata sul gesto, sull’uso della voce diretta, sull’azione. Ci si allontana dalla produzione dell’oggetto estetico per esaltare la presenza in situazione, che vale come momento caratterizzato dai legami forti con il pubblico, sia sul piano fisico, sia su quello psico-emozionale, e che permette di attivare strategie di demistificazione “a caldo”, piani di conflagrazione trasgressiva, di caustica, lucida, talvolta feroce e crudele analisi.
Oggi, in questa società del disastro, la regola mediatica impone la visibilità come valore assoluto. Non riveste più alcuna importanza la capacità di progettare, di dire, di agire: l’unico fine è quello di farsi vedere. E il traguardo della buona visibilità coincide con quello del successo economico e sociale: un paradosso abominevole che si scontra con quanto faticosamente messo a punto in secoli di impegno socio-culturale e di riflessione filosofica. Da qui la necessità di affermare con forza progetti oppositivi che possano in qualche modo incidere sul sistema affermando controvalori che saranno tanto più efficaci quanto più saranno conflittuali e graffianti. In un mondo che si avvelena e si deforma nella folle corsa al potere economico, la ricerca di punta è tanto più antagonista quanto più è fuori dal mercato. Del resto un aspetto fondamentale della performance è proprio quello determinato dal suo sottrarsi alle regole del mercato e dalla maniera con cui se ne sottrae. Qui risiede gran parte della sua forza perché ha modo di svilupparsi, al di fuori dei condizionamenti dei sistemi di produzione istituzionali, in piena libertà: libertà operativa e di pensiero che si fondono direttamente nell’azione. D’altra parte le sue valenze trasgressive sottolineano costantemente la volontà di porsi al di fuori dei quadri ufficiali dell’arte, anche se, negli ultimi tempi, si sono registrati fenomeni di pieno asservimento al sistema da parte di autori di eventi pseudoperformativi, costruiti, con ampio dispiegamento di mezzi, come veri e propri spettacoli destinati al mercato, da cui trarre successivamente sottoprodotti (videoclip, fotografie, multipli, ecc.) da immettere nel circuito dei musei, delle gallerie e dei collezionisti. È invece nella tradizione della performance la sua povertà di mezzi, che, in realtà, rappresenta un aspetto non secondario della sua organizzazione strutturale, dato che la flessibilità e l’adattabilità ai differenti contesti entrano in gioco come elementi che la caratterizzano sul piano linguistico. Il performer deve essere sempre pronto ad affrontare le situazioni più diverse, in presenza di grandi apparati tecnologici o in luoghi privi di elettricità, in un auditorium o in un rudere abbandonato, in una piazza o sulla riva del mare.
Al performer, poeta della contemporaneità, si richiede un gesto fondamentale: quello di riappropriarsi del patrimonio materiale che fluisce attraverso i sensi; perché la poesia passa per il corpo, che si pone come nodo di centinaia e migliaia di canali sensuali in entrata e in uscita. L'intelligenza attiva è corpo; il gesto poetico è corpo; il corpo è ritmo e senza ritmo non c'è linguaggio. D'altro canto, diceva Roland Barthes che “non c'è linguaggio senza corpo”.  In realtà il poeta-performer si offre al suo pubblico segnando una vera e propria volontà di dissipazione, tanto da mettere in ballo tutto se stesso, ma dove dissipazione vale anche liberazione, dove dissipazione è un aspetto del linguaggio, un modo di entrare in contatto con l’universo. Ma non si tratta della dissipazione astuta e trionfante dell’avanguardia istituzionalizzata, ricca e protetta; è più che altro la pura offerta di sé, avendo scelto una strada di povertà, piuttosto rigorosa, ma tutt’altro che ingenua, sicuramente provocatoria in questo contraddittorio occidente tecnologico, talvolta paradossalmente eccessiva, certamente rischiosa. In questo senso, sia pure a fronte delle strategie tecnologiche che impegnano i nostri anni e dei risultati del necessario confronto con l’evoluzione dell’universo elettronico, il valore sul piano tecnico, linguistico ed estetico dell’arte d’azione può essere misurato attraverso i seguenti parametri fondamentali: la presenza del corpo (intesa come fattore polisensoriale, cardine dinamico, polo pulsante), l’evento (inteso come momento interattivo irripetibile), l’intermedialità (intesa come intersezione di territori mediatici, di codici e di linguaggi), la tensione performativa (intesa come carica potenziale da impegnare nella performance, dove il corpo vive il suo rapporto con lo spazio, il tempo, gli oggetti, le protesi strumentali). Questi elementi caratterizzano, oggi, pratiche artistiche appoggiate ad una rete, non necessariamente o non solo elettronica, fondata sulle relazioni tra centri di elaborazione estetica diffusi un po’ in tutto il mondo, che giustificano la loro sopravvivenza sui valori “politici” del rapporto umano. Fratellanza, tolleranza, convivialità, libertà di comunicazione, al di fuori dei vincoli del business dell’arte, sono valori condivisi, nella generalità, da schiere di “artisti nomadi” di oriente e occidente. Un'ampia quanto significativa frangia di operatori, infatti, insiste da anni sul concetto di nomadismo. Nel 1986, a Québec, mutuando tensioni già in atto, Richard Martel propone un articolato festival di performance proprio per sottolineare questo atteggiamento. La manifestazione, denominata "Espèces nomades", evidenzia l'importanza delle pratiche artistiche dominate non solo dalla fusione dei linguaggi e delle tecniche, ma anche da dimensioni esistenziali e modi di vita. In quell'occasione la danese Marianne Bech  sottolinea le analogie tra i trovatori medioevali, poeti nomadi che diffondono la loro cultura attraverso poesia, musica e vocalità, e i performer contemporanei, che fondano la loro ricerca su un mélange tecnologico e linguistico che testimonia la ricchezza e l'ampiezza del concetto di performance. Ma questo artista non è nomade soltanto in senso metaforico: egli, infatti, da una parte attraversa i linguaggi, dall’altra si relaziona e si sposta nel mondo alla scoperta di altre realtà culturali, trascinandosi dietro bagaglio tecnico e universo linguistico. L'arte nomade, insomma, non solo fa riferimento al corpo e a tutti i suoi prolungamenti, alle sue protesi; ma anche ai tessuti di relazione che riesce a connettere, annotando ogni passaggio e registrando ogni mutazione, facendo leva anche su quelle componenti topologiche che finiscono per determinare ciò che Roger Chamberland, con efficace gioco di parole, riferendosi all'unità perfetta e alla sostanza attiva, definisce “espaces monades”.  In realtà questi “espaces monades” costituiscono le molecole di una materia pulsante alimentata da “espèces nomades”: espèces che garantiscono la tenuta energetica: tenuta energetica che pervade i continui spostamenti molecolari di un universo che è anche mondo e specchio del mondo. In quest'ottica, lo scambio internazionale è alla base del fondamento culturale, artistico ed esistenziale. Del resto l'impegno degli “artisti nomadi” è quello di approntare strategie che collochino i principi del pluralismo e della tolleranza e i temi dell'uomo e del suo destino tecnologico in uno spazio critico che si opponga fermamente ad un'informazione (e non solo a quella) asservita agli interessi di quei gruppi di potere per i quali la logica dell'immediato profitto è al di sopra di qualsiasi altro valore. Contro questa logica, la tensione creativa degli “ambassadeurs”,  nomades & monades nel/del mondo, può ancora svolgere un ruolo fondamentale, sia attraverso lo scambio diretto, vivo e contaminante, sia con il supporto delle nuove tecnologie.  Un lavoro immane! Si inscrivono perfettamente in questo quadro le poetiche dello scambio, da una parte, e della flessibilità e duttilità del disegno poetico, dall'altra; e oltre l'interattività mediatica, si assiste anche alla contemporanea crescita del lavoro collettivo e interattivo diretto e reale. Manifestazioni, animate da questo spirito sono oggi numerosissime.  Da più di qualche anno, come reazione alla melassa postmoderna, il fenomeno si affaccia in tutto il mondo  e utilizza rapporti variegati con le odierne tecnologie, facendo salvo, però, il valore della “presenza” forte dell'artista e ricercando nuovi rapporti con le forme del testo, nell'intenzione di realizzare disegni poietici fortemente antagonisti, sostanzialmente orientati verso quello che sarà l’ultratesto trasversale di una nuova lingua poetica che vivrà di polifonie intermediali. 

NOTE

  1 - Principio che risolve il conflitto tra la teoria della relatività generale e la meccanica quantistica
  2 - B. GREENE, L’universo elegante, Torino, Einaudi, 2000.
  3 - I. CALVINO, Lezioni americane, Torino, Einaudi, 1988.
 4 - E. MICCINI, La poesia sonora e la poesia tecnologica, in Concerti di poesia, 1966 - 1982, LP 33, Radiotaxi, n°9, Lotta poetica & Studio Morra, Verona-Napoli, s.d.
  5 - Cfr. D. HIGGINS, Horizons. The Poetics and Theory of the Intermedia, Southern Illinois University Press, Carbondale, 1984. Il capitolo "Intermedia" riprende il saggio pubblicato in "Something Else Newsletter", vol.1, n° 1, New York, 1966.
  6 - R. BARTHES, La grana della voce, Torino, Einaudi,  1986.
  7 - M. BECH, Footnotes, in “Inter” n° 37, Québec 1987.
  8 - R. CHAMBERLAND, Espèces nomades, in “Inter” n°37, Québec 1987.
  9 - Nel 1997 Julien Blaine organizza a Ventabren un’esposizione dal titolo “Les ambassadeurs au V.A.C.”, con opere di artisti definiti “nomades, nomades absolument” [catalogo].
  10 -Un vero e proprio laboratorio nomade, indiscusso punto di riferimento di artisti nomadi, è costituito da “Poliphonix”, festival internazionale curato da Jean Jacques Lebel, che si sposta nel mondo coinvolgendo i più significativi esponenti di quella che si può genericamente identificare come “poesia diretta”. Si veda J. J. LEBEL (direzione editoriale di), Poliphonix, Éd. Centre Pompidou / Éd. L. Scheer / Polyphonix, Paris 2002. Il volume è stato pubblicato in occasione del quarantesimo festival.
 11 - In una rapida carrellata ricordiamo almeno il "NIPAF", curato da Seiji Shimoda in Giappone, le rassegne animate a Québec da Richard Martel, “Polysonnerie”, a cura di Sylvie Ferré, a Lione, “Voix de la Mediterranée” a Lodève, gli stages de "Le Réfuge" di Marsiglia, “AAA, Art électroniques” sostenuto da Michel Giroud a Besançon, il “Festival de la Bâtie” a cura di Heike Fiedler e Vincent Barras, a Ginevra, “Artransmedia”, a cura di Acindino Quesada, nelle Asturie, “Viatge a la Polinèsia”, a Barcellona, a cura di Eduard Escoffet, il "Perforium" di Budapest, diretto da Istvàn Kovàcs, le giornate valenziane di Bartolomé Ferrando, il “Berliner Sommerfest der Literaturen. Mundstücke. Sound und Lautpoesie” a Berlino, con la collaborazione di Michael Lentz, “Romapoesia”, animato da Nanni Balestrini, il "Dimension O" a Vilnius, a cura di Dziugas Katinas, i festival dello Studio Erté di Nove Zamky in Slovakia, a cura di József R. Juhász, l'"AnnART", di Gusztav Uto e Réka Konya, in Romania, “Interakcje”, a Varsavia, a cura di Jan Swidzinski, le giornate di Ajaccio di Philippe Castellin e Jean Torregrosa, “Sonorité” di Ann-James Chaton a Montpellier e, non ultimo, il "Castle of Imagination" di Bytow, a cura di Wladislaw Kazmierczak e Ewa Rybska, bersagliati dall’attuale leadership polacca e letteralmente costretti ad un esilio “volontario” in Gran Bretagna.
 12 - Nel 2001 è stata costituita l’IAPAO, un’associazione internazionale tra organizzatori di eventi performativi.

 

 

 

Giovanni Fontana
LIBRO D'ARTISTA E PROSPETTIVE INTERMEDIALI

 

Osservava Mc Luhan che gran parte della gente accetta la propria cultura come destino. Ma il pericolo di rimanere invischiati in cicli culturali ermetici, come in una sorta di trance, può essere superato acquisendo una "consapevolezza empatica delle forme precise delle diverse culture". Il mezzo per raggiungere questa autoconsapevolezza era già individuato da Joyce in quello che egli chiamava "collideorscopio", termine che lo stesso Mc Luhan definisce come "l'intreccio e lo scambio in un miscuglio colloidale di tutte le componenti della tecnologia umana, via via che esse estendono i nostri sensi e mutano i loro rapporti nel caleidoscopio sociale dello scontro culturale".
Il rischio di restare intrappolati entro modelli rigidi diventa altissimo quando la dimensione "libresca" non si coniuga a quell'"ingegnosità" pre-letteraria su cui si fonda la concezione originaria e naturale del sapere. Capita allora che vengano esaltati clichés paralogici che distendono lunghe ombre sulla percettibilità sinestetica del mondo.
In questo senso, la capacità di percezione sinestetica è andata scemando con la diffusione dei prodotti tipografici. L'invenzione della stampa a caratteri mobili, infatti, offriva un oggetto libro che avrebbe svolto con crescente gradualità un ruolo determinante nel processo di separazione delle dimensioni percettive; mentre durante i secoli della cultura manoscritta, l'elemento tattile sollecitava quello visivo ed entrambi si connettevano all'udito, stuzzicato dalla sonorità della dettatura o dalla lenta sillabante ripetizione del testo durante l'autodettatura, dalla lettura collettiva o da quella, solitaria, bisbigliata nelle celle e compressa nei cubicula di lavoro.    
Trattando William Ivins, Mc Luhan notava che "Chi si occupa di letteratura e di filosofia è incline a preoccuparsi del 'contenuto' di un libro e ad ignorarne la forma. Si tratta di una manchevolezza caratteristica della scrittura fonetica, in cui il codice visivo ha sempre come 'contenuto' la parola ricreata dalla persona che legge. Nessun lettore o scriba cinese commetterebbe mai l'errore di ignorare la forma stessa della scrittura, poiché i suoi caratteri scritti non separano il codice visivo dalla parola come avviene invece per noi. Ma in un mondo basato sulla scrittura fonetica questa esigenza di separare la forma dal contenuto diventa universale […]".(1)  Si era nel 1962. Oggi gli atteggiamenti sono molto cambiati. Il Novecento ha disperso le sue ultime battute nella fittissima rete dei nuovi media e si è consegnato alla storia come il secolo del tramonto della galassia Gutenberg e del rilancio della percezione intersensoriale. È fuor di dubbio, infatti, che il mondo delle relazioni massmediatiche ci conduca sulla strada della "mutazione" per quanto attiene la percettività, ormai sempre più fortemente sinestetica. Sul piano artistico, il rapporto con i media, si pone oggi come premessa per ogni tipo di linguaggio. L'attuale universo della comunicazione è plurilinguistico, multidimensionale, interdisciplinare, polisegnico; mentre l'intermedialità appare come il denominatore comune dei processi artistici.
In questo quadro si pone l'avventura del libro d'artista: oggetto che materializza la trasversalità dei linguaggi e delle tecniche, che segna il recupero degli aspetti plurisensoriali della comunicazione estetica e che, inoltre, pur rispecchiando un nuovo status antropologico e un nuovo 'sentire' tecnologico, riafferma una dimensione artigianale che stava scomparendo e una manualità che testimonia la volontà di ricercare ritmi più pacati da contrapporre alla velocità dell'universo digitale. Il lettore si trova, così, ad assumere un nuovo ruolo nel processo delle relazioni, talvolta svolgendo una parte particolarmente attiva.
Il libro d'artista, infatti, può porsi come occasione verbovisiva e come narrazione in termini plastici, come teatro di ombre e come spettacolo materico, come scatola magica e come camera delle meraviglie, come palestra di avventure totali e come terreno di giochi, come misuratore di tempi mentali e come diario dei sensi, come prodotto d'uso e come feticcio, come reperto da custodire e come dono da amare, come traccia, come testimone muto del gesto, come segno da disperdere, come puzzle da montare, come labirinto da percorrere, come perimetro da definire, come oggetto rituale o come scandaglio tecnologico, come tessuto contaminante, ma anche come deiezione e catalogo trash, come indicazione esemplare o come attrezzo volgare, come poema, come voce, come partitura da eseguire, come contenitore di suoni cristallizzati o come strumento realmente sonoro, come luogo da abitare o come nido da covare, ma anche come macchina della sorpresa trasversale, come congegno intermediale, come circuito elettrico ed elettronico o, all’opposto, come sacra teca e arca segreta, come scrigno, perfino come pietra tombale e come confessionale, e poi come occasione di trasgressione, come oggetto erotico, come maschera, come travestimento, come testamento grottesco e come eredità dissipata, come mappa da decrittare e come passaporto di viaggio, come occasione perduta o come memoria ritrovata e così via con tipologie, generi e varietà. Il libro d'artista, perciò, è oggetto da percorrere non solo guardando e leggendo, ma toccandone le pagine, apprezzandone le rugosità, sfogliandolo sonoramente, sentendone il profumo, vivendone tutta la pregnanza. E spesso si pone come pre-testo o come centro di gravitazione, anche di azioni spettacolari. Ma, oggi, sulle frontiere elettroniche si profilano insospettate realtà che certamente non lasceranno indenne dalla loro influenza il libro d’artista, tanto da poter addirittura scommettere, senza tema di smentita, su future schiere di libri-robot e di libri-macchina audio-video-proiettanti!

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  1 - M. MC LUHAN, La Galassia Gutenberg. La nascita dell'uomo tipografico, Armando Editore, 1976.

 

 

 

Giovanni Fontana

LA SCRITTURA VERBO-VISIVA
Dispositivi per letture sinestetiche

 

Quando, dopo tante peripezie, Pantagruele e compagni arrivano di fronte alla “Dive Bouteille” per interrogarla, la nobile pontefice Bacbuc invita Panurge a compiere gesti di rito: lo fa inginocchiare, gli fa baciare la fontana, gli fa eseguire tre danze dionisiache, poi lo fa sedere culo a terra tra due seggi preparati appositamente per la cerimonia, dopodiché, aperto un libro rituale, gli suggerisce di interrogare la “Dive Bouteille” cantando in versi.
Nell’opera di Rabelais[1]  quell’interrogazione in versi assume la forma dell’oggetto animato a cui è rivolta. E sorprendente è la risposta che la bottiglia dà: “Trink”, cioè “Bevi”.
“Proprio così parlano le bottiglie cristalline del mio paese quando crepano per essere troppo vicine al fuoco”, esclama Panurge captando lo squillante responso come puro suono.
Si tratta di un enigmatico gioco di specchi in cui la componente tautologica, sembra assolvere funzione rassicurante, ma le porte dell’arcano (al di là del nostro piacere sinestetico) restano aperte.
C’è modo e modo, comunque, di interpretare l’oracolo; tra i mille modi: ricostruire la risposta attraverso le infinite forme che può assumere la domanda.
Quale migliore occasione, in questo OINOS – OINOS, di quella offerta dalla “Dive Bouteille” rabelaisiana, vero e proprio incunabolo dell’interlinguaggio, per aprire un discorso sulla moderna poetica delle scritture in espansione ?
La scrittura, l’immagine, la melodia del verso e l’onomatopea del “trink”: quello che spunta da quelle forme riesce a convertire un puro stimolo mentale in fragranze e sapori, riesce a rendere reale sulle nostre papille un immaginario gusto di vino.

Del resto sappiamo bene che la lettura di un testo verbo-visivo implica un atteggiamento sinestetico in relazione alla proprietà specifica della composizione che si espande in dimensioni complesse, che includono caratteri interlinguistici, al di là dei confini delle discipline e dei codici correnti. La parola, l’immagine, ma anche il suono che deriva, direttamente, dagli effetti acustici della lettura del testo o, indirettamente, dalla valenza “sonora” di certe strutture figurali, di certe tessiture, di certe notazioni visive, di certi cromatismi, fanno sì che l’opera si ponga come una sorta di sintesi da sciogliere in chiave polisensoriale, da aprire a 360° quando intervengono, come accade spesso, anche valori tattili e olfattivi. A volte i confini tra i diversi elementi si fanno molto labili: l’immagine si pone come parola, la parola si pone come immagine, e così via. In particolare accade spesso che i limiti tra l’elemento visivo e quello sonoro si perdano, specialmente quando sia l’uno che l’altro vengono organizzati sulla base della loro fisicità. Prove in tal senso sono offerte da numerose “scritture visive” che si sono sviluppate nell’ambito del concretismo internazionale. Basti pensare ad alcuni “poèmes mecaniques” di Pierre Garnier o a molte opere di Bob Cobbing, di Claus, di Krivet, di Lora Totino, agli “zeroglifici” di Spatola, ecc. Ma ci si può anche riferire alle numerosissime “scritture optofonetiche” disseminate nell’intero corso del Novecento, a partire dalle tavole parolibere futuriste fino ai “cronogrammi” di Balestrini.
Per esempio, ponendo a confronto gli audiopoemi e i dattilopoemi di Henri Chopin si registrano dati molto interessanti. Il fruitore è sollecitato da una parte dal suono, da una parte dalla forma visibile. L’audiopoema rifiuta l’imperativo del linguaggio non accettandone più la fonia come confine, bensì sceglie di articolarsi sulla genesi corporea e corporale del suono, così come il dattilopoema si fonda sulla materialità delle tessiture, nelle quali le lettere si organizzano secondo criteri che nulla hanno a che fare con l’universo della lingua. Lessico, grammatica e sintassi sono al grado zero, mentre la qualità dei rapporti tra gli elementi è controllata visivamente. Osserva Paul Zumthor come nel fruitore l’opera riesca a sollecitare un medesimo punto interiore, sia pure passando attraverso diversi canali sensoriali. “...sia attraverso l’orecchio che attraverso l’occhio, non è forse uno stesso luogo dentro di me che viene colpito? Non è forse un medesimo punto nascosto al centro? E da questo punto s’irradia, di ritorno, un richiamo informulabile e tanto più unico”. Un prodigio di ordine sinestetico, sia pure legato alle prerogative polisensoriali del soggetto, è compiuto: l’occhio e l’orecchio sono stimolati da una voce sui generis che si organizza all’interno. Si tratta di sollecitazioni sensoriali diverse, di stimolazioni apparentemente senza rapporto, tuttavia “in profondità, uniche ... une ... non fosse altro che per il loro carattere comune”, che è dato dalla loro stessa sensorialità, unica modalità d’esistenza che implica la presenza di un corpo e ne invoca la sua materialità vivente. In un certo senso è come se queste “scritture” fossero collegate ad un’interfaccia che ne consente la “lettura” su differenti piani sensoriali. Si osservino le registrazioni dattilografiche di Chopin con funzione di partitura[2].

Queste voci interiori, sinestetiche, con valenza sensoriale, ma anche largamente mentali, si pongono in un’area di confine tra sonorità e visualità; con un paradosso rivelatore si potrebbe parlare di “sonorità visuale” o di “visualità sonora”, dove l’orecchio è ausiliare dell’occhio e viceversa. Voci doppie che muoiono nel loro mezzo specifico e rinascono in dimensioni non tratteggiate in precedenza. Voci prodigiosamente orientate, frutto di sintesi alchemiche intermediali! Queste voci sono le maggiori responsabili di caratteristiche reazioni a catena che vengono innescate all’insegna della ricorsività, sia pure al di fuori della dimensione performativa. Le forme di poesia verbo-visiva, per esempio, e in particolare tutto il filone dei poemi-partitura ben si prestano al gioco di tale ricorsività, così come descritta e definita da Douglas R. Hofstadter nella sua “fuga metaforica su menti e macchine nello spirito di Lewis Carroll”,[3]  anzi direi che di questa fa un presupposto tecnico, perché suo assunto principale è quello di costruire sistemi formali usando elementi di estrazione diversa, i quali, pur realizzandosi completamente attraverso l’articolazione di sostegni reciproci, tendono a configurarsi in sottoinsiemi autonomi, incorporati a quello principale.
Ci si trova, in pratica, di fronte ad una stratificazione di strutture, che può toccare punte di estrema complicazione quando i sistemi formali si annidano l’uno nell’altro in gran numero. Nel caso di operazioni “poietiche” riferibili a più codici e rivolte a più sensi, tali complicanze sono fisiologiche.
Il modello di riferimento adottato per le costruzioni è labirintico. Ancora una volta, l’archetipo risulta efficace e funzionale all’illustrazione di un paradigma contemporaneo.
Scendendo a ricercare una definizione tipologica, ci si avvede che l’intreccio ha tutte le caratteristiche del Piccolo Labirinto Armonico, la composizione bachiana di cui Hofstadter si serve per argomentare i suoi discorsi sulla ricorsività.
Si tratta di un’opera sviluppata secondo melodie e accordi talmente ambigui che, allontanando l’ascoltatore dalla tonica, riescono a smarrirlo. La tensione provocata con questo accorgimento spinge chi ascolta a ricercare nella sequenza dei suoni un segnale che gli comunichi un ritorno alla fondamentale. Ma il centro di attrazione delle cadenze è continuamente spostato. E la “risoluzione” non arriva mai, con il risultato che attraverso la percezione di toniche secondarie, l’ascoltatore può solo credere ogni tanto di essere giunto alla conclusione, di essere padrone del brano, per accorgersi un attimo dopo, che sta navigando nel mare dei suoni senza alcun punto di riferimento.
Tutto ciò è molto simile a quanto avviene nella scrittura verbo-visiva, nei poemi-partitura e in numerose forme di scrittura multimediale. Al primo impatto, che per lo più è visivo, l’occhio sembra trovare soddisfazione, fino a quando non si accorge che, all’interno dell’opera, svolgono un ruolo visivo anche segni di estrazione molto diversa, come la parola o la notazione musicale. Successivamente questi elementi prestati al gioco figurale si fanno interpretare secondo i loro codici specifici. La parola si fa leggere. La notazione musicale rimanda ai suoni. Poi sono i suoni a porsi come parole e le immagini a porsi come suoni, e così via. Si aprono quindi dimensioni nuove, altri sistemi.
La “lettura” avviene secondo fronti diversi e attraverso un costante confronto dei segni, ognuno dei quali si offre a più livelli interpretativi. Il percorso della percezione, allora, diventa molto tortuoso, fatto di andirivieni continui. E tutti i sensi possono venire coinvolti, direttamente o indirettamente, in questa avventura. Dietro gli esercizi di notazione si intercettano dimensioni aurali, dietro la parola si aprono veri e propri orizzonti sonori, così come agli eventuali valori materici e plastici di superfici e volumi potranno corrispondere sensazioni tattili.
Insomma, pur nel rispetto della bi(tri)dimensionalità (o con minimi accessi alla terza dimensione) l’opera verbo-visiva riesce ad innescare innumerevoli meccanismi, che rendono effetti di tale ambiguità da disorientare il lettore, il quale si troverà a dover sperimentare associazioni diverse, tentare decostruzioni e ricostruzioni, intraprendere svariati percorsi, nel tentativo di uscire dall’avventura che sta vivendo. È come se l’artista, novello Dedalo, abbia voluto realizzare per l’adepto lettore un labirinto dell’ambiguità sensoriale per il compimento di un percorso iniziatico.

Oggi queste situazioni si presentano diffusamente nello spazio della comunicazione, dal libro-game al gioco interattivo, dalla navigazione in rete alla lettura di un ipertesto, anche se, in realtà, pure la lettura di un semplice testo lineare costringe ad una serie di labirintiche scelte di percorso. Nelle forme verbo-visive le cose si complicano ulteriormente perché ci si trova a dover inseguire parole nelle immagini e immagini nelle parole. La pagina viene spesso “sfondata” in senso spettacolare: i segni si espandono nel tempo e nello spazio; parola e immagine si fanno voce e gesto.
D’altra parte nell’ambito delle forme poetiche non lineari non è più assolutamente sufficiente avvalersi del semplice, acritico ed innocuo confronto statico di elementi di diversa estrazione. Si tratta di sconvolgerli radicalmente intersecandoli, di fonderli smontandoli, di sovrapporli tormentandoli, di incrociarli per provocarne fruttuosi corti circuiti, per poterli meglio misurare con le contraddizioni della realtà; si tratta di stabilire regole precise che permettano ai segni di rivelarsi nella loro interezza e con la massima efficacia attraverso il reciproco sostegno degli elementi, in un gioco di relazioni in cui essi non siano più riconoscibili nei loro tratti originari; si tratta di sfruttare l’energia dell’interferenza, di ricercare altre sintassi per enucleare altri discorsi, efficaci e taglienti, con la consapevolezza che l’insieme delle parti non corrisponde mai alla loro somma.
È per questa strada che si finisce per incontrare quell’ultratesto che vive di trasversalità visive e sonore, basato su una lingua poetica che respira polifonie intermediali e interlinguistiche, senza mai apparire, però, come mera sommatoria delle lingue sussidiarie che vi partecipano.

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1 - F. RABELAIS,  Oeuvres complètes, Collection Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris 1994.
2 - Cfr. P. ZUMTHOR, I grafemi e i vocemi di Henri Chopin, in “La Taverna di Auerbach”, n° 1, 1987.
3 - D. R. HOFSTADTER, Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante, Adelphi, Milano 1984.

 

ALTRI SCRITTI

 

 

 

HERMES INTERMEDIA

HERMES INTERMEDIA. Molteplicità, simultaneità, intermedialità

Anton Giulio Bragaglia, nel suo fondamentale saggio “Fotodinamismo futurista” (di cui quest’anno ricorre il centenario della pubblicazione) innesca un processo che trasforma radicalmente il “modus videndi” e l’intero sistema della visione. Apre all’occhio dimensioni straordinarie che, sottese da illuminanti riflessioni teoriche, inaugurano una nuova concezione dell’immagine, che trascende lo stesso specifico tecnico della fotografia. Ce ne siamo resi ben conto noi, nel momento in cui ha preso le mosse la stagione dei nuovi media. E ne abbiamo coscienza assoluta, oggi, a distanza di cento anni.

“Il moto e la luce distruggono la materialità dei corpi”, scrive Anton Giulio Bragaglia. Si tratta di un’osservazione che, all’epoca sottovalutata, avrebbe aperto alla ricerca e alla sperimentazione artistica strade del tutto imprevedibili. Ispirato dal manifesto tecnico della pittura futurista, Bragaglia si occupa della visualizzazione del movimento, registra e valorizza la traiettoria come “spirito del gesto” e come sintesi di spazio e tempo, intuendo le straordinarie potenzialità delle pratiche luministiche nella ricerca visiva e anticipando quella stagione della “moderna magia” che pone la luce al centro dell’universo tecnico ed espressivo. Per Bragaglia “l’opacità dei corpi” non è più credibile.
Egli pone in evidenza le generali relazioni tra oggetto e spazio, tra corpo in movimento e ambiente circostante, assegnando valore di segno alle traiettorie, da una parte scie impalpabili della materia in moto, dall’altra, tracce tangibili dello scorrere del tempo, che attraverso valenze visive vengono a porsi come vere e proprie coordinate spaziali. La dimensione temporale è considerata in chiave linguistica. Per Bragaglia il tempo è "tradotto in spazio", il tempo è "portato decisamente come una quarta dimensione nello spazio", per ricercare "nuove sensazioni di ritmo", per ottenere un "risultato dinamico": perché "il dinamismo è tanto essenziale che, spesso, solo il ritmo di un movimento è sufficiente per tutto un quadro e possiede la forza di comporre, da solo, un immenso poema di armonia". In questa prospettiva Bragaglia può essere considerato a pieno titolo uno dei padri delle arti intermediali.
Hermes Intermedia [Giovanni Fontana, Giampiero Gemini, Valerio Murat, Antonio Poce] valuta e acquisisce l’esperienza fotodinamica bragagliana per metabolizzarla oltre i confini dell’immagine fotografica e al di là della mera esperienza movimentista, che tanta parte ha avuto cent’anni or sono nella configurazione del futurismo. Per Hermes Intermedia conta la sapienza visiva come cardine per una scrittura del molteplice. Intorno ad essa, infatti, si innesta e si articola un complesso universo di segni che interagiscono scambiandosi ruoli. Per tornare a Bragaglia si potrebbe ricordare la nozione di “sinopsia”, ma per restare nell’ambito del gruppo è senza dubbio necessario citare l’esperienza della “flash opera”, da dove prende ufficialmente le mosse la sua attività.
Nata da un’idea di Antonio Poce per l’Europafestival di Ferentino (1994-2001), la “flash-opera”, è da considerare, a tutti gli effetti, un nuovo genere di composizione poetico-musicale, fondato sugli scambi e sui rapporti possibili tra musica, testo, immagine, azione e strumentazioni elettroniche.
I lavori proposti nelle diverse edizioni del festival sono, per lo più, incentrati su scelte multimediali e intermediali prodotte dall’incontro di poeti, musicisti e artisti, nelle quali svolge un ruolo importante l’impatto tra vocalità, musica, corpo in movimento e tecnologie elettroniche.
Prendono parte a quelle produzioni numerosi artisti che vale la pena ricordare; tra i musicisti, Claudio Ambrosini, Stefano Bracci, Luigi Ceccarelli, Cosimo Colazzo, Matteo D’Amico, Michele Dall’Ongaro, Antonio D’Antò, Agostino Di Scipio, Gabriele Manca, Andrea Mannucci, Fernando Mencherini, Ennio Morricone, Piotr Moss, Paolo Perezzani, Maurizio Pisati, Luca Salvadori e lo stesso Poce; tra i poeti, Tomaso Binga, Franco Cavallo, Giovanni Fontana (in più occasioni anche in veste di regista), John Giorno, Tonino Guerra, Arrigo Lora Totino, Mario Lunetta, Lamberto Pignotti, Vito Riviello, Gianni Toti.
La flash opera si profila come un’ottima palestra per affinare gli strumenti della coscienza e della sapienza intermediale, che per gli autori del futuro gruppo avrebbe determinato una significativa spinta verso la scelta della dematerializzazione dello spazio scenico, fino alla performance digitale.
Ilya Prigogine (La nascita del tempo, Bompiani, Milano, 1991) parlava del sapere scientifico come “ascolto poetico” e come “processo aperto di produzione e d’invenzione”: un’indicazione che, se ricondotta al sapere intermediale, è perfettamente funzionale alla riflessione sul metodo. L’opera intermediale, infatti, caratterizzata dall’intersezione di codici in una prospettiva polidimensionale, ha una struttura pulsante che favorisce la costruzione di sistemi che ri-condizionano di volta in volta la dinamica degli elementi considerati, proprio come avviene nella fisica delle particelle. Non si può parlare, allora, di mero luogo di confluenza di discipline artistiche, bensì di dispositivi elastici che abbiano la capacità di relazionarsi attraverso connessioni profonde e non per semplice sovrapposizione di fasce. E qui, è d’obbligo ricollegarsi all’intuizione di Dick Higgins, quando, trattando il tema dell’integrazione dei linguaggi, elabora il concetto di intermedium ("Something Else Newsletter", vol.1, n° 1, New York, 1966), termine riferito esclusivamente all'opera in cui tale integrazione è completamente attuata, opponendolo a mixed-medium, termine riferito ad un oggetto artistico in cui il fruitore può distinguere i vari aspetti linguistici (verbale, visivo, sonoro, ecc.) in condizione di completo appiattimento; nell’opera intermediale, invece, i diversi elementi si fondono in un unicum che non consente letture differenziate, pur salvaguardando l’autonomia e la singolarità dei segni.
In un certo senso la scrittura intermediale è un ingranaggio che funziona come i meccanismi della memoria, dove l’illusione del tempo naufraga nel presente attivando una miriade di sinapsi che distillano suoni, immagini e percezioni diverse in essenze della molteplicità e della simultaneità.
Si tratta certamente di una scrittura più consona alla contemporaneità, ma nello stesso tempo fortemente critica e oppositiva all’appiattimento mediatico e alternativa alle forme di video arte che fanno il verso al multimediale globalizzato, imitandone acriticamente, se non inconsapevolmente, le tecniche, cedendo ai canti vuoti delle sirene dell’elettronica. 
Nell’ottica dell’idea di “processo aperto” di Prigogine e della fisica delle particelle, è come se il processo di invenzione e produzione fosse realizzato da particulae, portatrici di senso solo in quanto riferite alla dimensione totale dell’opera, che si vuole come concentrazione assoluta di energie. Tutto è in funzione del tutto. Si potrebbe parlare, perciò, di entità transmateriali innervate da linee-forza che provocano tensioni inattese e vibrazioni del senso. È un po’ quello che accade nelle particelle subatomiche secondo la “teoria delle stringhe”, dove si ipotizza che tutta la materia e tutte le forze nascano da un unico costituente di base.
Secondo questa teoria le particelle subatomiche non sono puntiformi, ma sono costituite da filamenti unidimensionali (stringhe) infinitamente sottili che oscillano freneticamente. Queste vibrazioni continue, che hanno ampiezze e frequenze caratteristiche, si manifestano come “particelle”. Ma la cosa più sorprendente è che la loro massa e la loro carica siano determinate dalle differenti oscillazioni. Da ciò deriva che le proprietà fisiche non sono che la conseguenza diretta di quelle oscillazioni; sono, per così dire, la musica delle stringhe. Per le forze vale lo stesso principio, cosicché ogni particella mediatrice di forza è associata ad una vibrazione specifica. Insomma, sia le forze, sia le particelle elementari sono fatte della stessa “materia” (B. Greene, L’universo elegante, Torino, Einaudi, 2000).
Nell’opera intermediale, le dinamiche interne ed esterne, le interazioni rivolte verso il proprio baricentro come verso la periferia, comportano l’esigenza di una sincronica vibrazione degli elementi, in un’incessante esplorazione, che, reiterata e spinta fino ad individuare le ampiezze e le frequenze delle particulae della materia linguistica, finisce per coincidere con una vera e propria trasgressione nell’uso dei linguaggi medesimi. Quello di trasgressione (o trans-gressione), infatti, è un concetto che implica pulsioni indagatrici. Esplorare significa spesso dover superare frontiere precluse, passaggi interdetti. Oltrepassare questi confini “invalicabili” è compiere un gesto di sfida, sia dal punto di vista artistico che culturale.
Nell’opera di Hermes Intermedia, in questo spirito, codici e linguaggi interagiscono in visioni sincretiche. Ambiti diversi vengono rivisitati e riorganizzati in un unico processo creativo, dove la reciproca integrazione degli elementi determina un simultaneismo acustico-visivo, sulla strada di una sincronia metodologica e di un contrappunto parasinestetico, che sfugge a meri parallelismi, optando, invece, per interrelazioni sghembe che prediligono la sorpresa, pur nell’assoluto rispetto della coerenza formale del progetto.
La lingua di Hermes Intermedia nasce, in effetti, dalla leggerezza di stringhe in vibrazione che, tagliati i cordoni dai loro ambiti caratteristici, si ricompongono armonicamente in un contesto di risonanze e di bagliori, dove l’immagine si fa musica e la musica si fa immagine.
Hermes Intermedia è oltre il video. Il suo atteggiamento translinguistico lo pone al di là delle categorie del video d’artista e/o della video-arte, spesso riconducibili all’area concettuale o alla dimensione della sperimentazione tecnologica, talora fine a se stessa e spesso stancamente reiterata. Quello di Hermes Intermedia è un processo di sintesi che non lascia spazio alla reversibilità, che però abbraccia la dimensione del molteplice non sottovalutandone gli aspetti metamorfici. Ecco, allora, apparire il video “in situazione”, aperto a rivisitazioni performative che ne snervano le strutture, ne amplificano i ranghi, pur nel rispetto della matrice originaria. Tutto ciò in coerenza con la volontà espressiva del gruppo, che articola un pensiero non-lineare, prediligendo strutture tridimensionali aperte, forme stellari organiche alla trasversalità, che, tuttavia, non cedono un millimetro alla provvisorietà, pur esponendosi ed autoalimentandosi sulla strada della ricerca della compiutezza, ma secondo la prospettiva dell’opera aperta. Ed è per questo che le matrici audio videografiche del gruppo si predispongono e si dispongono al trattamento della spazializzazione del suono, della multiproiezione, dell’interattività tra immagine dinamica, corpo e voce, in un fertile processo di esplorazione di spazi e di contesti.
Del resto, in “L’art a perte de vue” (Edition Galilée, Paris, 2005), Paul Virilio ha ben chiarito il processo della visione in relazione all’allontanamento dell’oggetto dal punto di vista. Oggi, l’occhio si perde oltre l’orizzonte. Nel mondo globalizzato, infatti, si privilegia una visione a distanza, perdendo di vista tutto ciò che è vicino. Si esercita, letteralmente, una tele-visione. Alla visione a perdita d’occhio si va sostituendo la visione frontale, limitata al piccolo schermo, che in realtà riduce il campo visivo (o campo d’interesse), obbligandoci ad una concentrazione che ci impedisce di guardare ciò che è percepibile nello spazio esterno ai confini del monitor, lo spazio del quotidiano.
La visione dello spazio euclideo, tipico della prospettiva quattrocentesca, è stata praticamente sostituita dalla visione del tempo reale: lo spazio-tempo del mondo è compresso nel piccolo schermo. Ne deriva una sostanziale perdita di vista, un reale accecamento. E anche l’arte è attirata in questo perverso vortice. Hermes Intermedia, invece, intende scommettere sull’allargamento del campo, visivo e non, sperimentando nuovi equilibri dinamici di segni, che possano perfino aprirsi all’esperienza tattile, predisponendo una superficie di contatto con il corpo della poesia materica. Ciò può avvenire coinvolgendo spazi non canonici, proiettando sugli stessi spettatori, inventando spazi a geometria virtuale attraverso la spazializzazione del suono, proponendo metamorfismi audio-visuali tramite l’intervento performativo.
Quello di Hermes Intermedia è un gesto “plurale” e non è mai riferito alla mera interdisciplinarità o al banale concetto di multimedialità; esso comporta momenti di vera e propria destabilizzazione dei rapporti istituzionalizzati, siano essi di tipo linguistico, spaziale, temporale, mediatico, per il fatto che alle sue fondamenta è sempre viva la necessità della continua riformulazione di codici e di categorie. Insomma, l’obiettivo è quello di individuare nuove potenzialità nelle pratiche artistiche scardinando convenzioni ed eludendone i condizionamenti, ma, nello stesso tempo, formulando progetti in cui il concetto di “pluralità” (e anche di “totalità”, per segnare un link con la storia) non sia solo riferito all’insieme degli elementi coinvolti, ma anche a quello delle loro possibili organiche relazioni.
Su questi orizzonti si affaccia soltanto la figura del “poliartista”: il poietes che agisce sui più diversi fronti della creatività, con qualsiasi materiale, in ogni spazio e in ogni situazione, su qualsiasi supporto e su qualsiasi canale, utilizzando qualsiasi tecnologia, appropriandosi della parola (oltre la letteratura), dell’immagine (oltre le arti visive), dell’universo sonoro (oltre la musica), della dimensione teatrale (oltre il teatro), dell’universo ritmico, riconducendo all’ambito creativo perfino la sua voce e il suo gesto, quindi il suo stesso corpo. Il “poliartista”, grazie alle sue nuove competenze, contribuisce, così, ad ampliare e snervare i confini delle arti, nel segno della contaminazione dei sistemi e della compenetrazione degli universi separati, in un’ottica plurale che ne sottolinei le singolarità sempre in chiave essenzialmente intermediale.
Hermes Intermedia è un gruppo di poliartisti.

Giovanni Fontana

 

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Hermes Intermedia è Giovanni Fontana, Giampiero Gemini, Valerio Murat, Antonio Poce

Musica, poesia, immagine, riunite in un corpo intermediale
 
Hermes Intermedia, Laboratorio dei Processi Intermediali, è un gruppo di quattro artisti che opera nel campo della elaborazione del suono e delle immagini. Giovanni Fontana, Giampiero Gemini, Valerio Murat e Antonio Poce, hanno in comune uno spiccato interesse per la intermedialità, ovvero l’integrazione fra processi creativi diversi. L’elettronica e le tecnologie digitali, unite ad una solida conoscenza della tradizione (musica, poesia e arti visive), rappresentano la strumentazione al servizio di una rinnovata creatività. Moltissime le produzioni realizzate da Hermes Intermedia nell’arco di un ventennio. Tra queste circa 30 Flash Opera, lavori originali di teatro musicale. Più recente la produzione di video, che si è imposta per la sua forte connotazione intermediale. Opere di immagini-musica-poesia per ricostruire un intero universo fatto di sospiri, interferenze, fratture profondissime, rivelazioni e silenzi.
 
Frammenti sparsi dello spirito per un linguaggio che indaga nuove forme e ne moltiplica il senso. Tutto il processo creativo è fissato in una progettazione scritta che garanti- sce un controllo totale della forma e la piena consapevolezza di ogni istante della composizione. Tra i molti vantaggi di questa metodologia di lavoro vi è il superamento di ogni artificiosa contrapposizione fra reale e immaginario, fra concreto e astratto. Le opere di Hermes Intermedia possono essere qualificate "astratte", non in quanto presuppongano un rifiuto del reale, ma perché sono prodotte dalla interiorità, distillate in un arco creativo fissato in un progetto. Numerose le opere prodotte e altrettanto numerosi i riconoscimenti.

 

VIDEO

 

Award in digital Arts and music compositions
 
Hermes Intermedia Awards in digital art and music composition
I° prize“Giga-Hertz-Awards” ZKM, Karlsruhe, Germany.
I° prize “Concours International de Musique et d’Art Sonore Electoacoustiques”, Bourges 2006
I° prize Reading Panel IRCAM, Ensemble Intercontemporain
I° prize “Gaudeamus Composition Prize” di Am- sterdam 2002
ICMC 2006. International Computer Music Con- ference, New Orleans
ICMC 2005. International Computer Music Con- ference, Barcellona
ICMC 2012. International Computer Music Con- ference, Ljubljana
Honorable mention “Concours International de Musique et d’Art Sonore Electoacoustiques”, Bourges 2005
Honorable mention “Concours International de Musique et d’Art Sonore Electoacoustiques”, Bourges 2008
EXiS 2005 International Competition Experi- mental Film and Video,
EXiS 2007 International Competition Experi- mental Film and Video,
RomaPoesia 2005, Roma
AsoloInternationalArtFilmFestival 2005
AsoloInternationalArtFilmFestival 2006
Zebra Poetry Film Award 2006. Berlino
Zebra Poetry Film Award 2008. Berlino
Prix de la Création Vidéo, Videoformes 2012
Prix de la Création Vidéo, Videoformes 2013
4th Doctor Clip- Roma Poetry Film Festival
 
 
Projections of video art works
 
Karlsruhe, Germani. ZKM
Kohln. CologneOFF X-NewMediaFest
Toulouse, Francia. Proxima Centauri
Toulouse, Francia. Traverse Video
Copenhagen International Poetry Festival
Exis. Exsperimental Film and Video festival. 2005
Seul (Korea). Exis. Exsperimental Film and Video
Utrecht, Olanda. Impakt Festival. 2005.
Osnabrueck, Germania. European Media Art Fes-
tival 2006.
Berlino. Zebra Poetry Film Award 2006.
Teheran, Iran. Teheran Short Film Festival. 2006. “Coppi”
Umeå, Svezia. V erkligheten BORDERS.
Stuttgart, Germania. 20° Stuttgarter Filmwinter.
Toulouse, Francia. Traverse Video. 2007.
Clermont-Ferrand. VIDEOFORMES. 2006.
Clermont-Ferrand. VIDEOFORMES. 2007.
Atene, Grecia. 2007. AthensVideoArtFestival.
Palermo. 2007. Eco Vision Festival.
Marsiglia (Francia). Istantsvideo. 2007.
Rio de Janeiro, Brasile. OI FUTURO. 2007.
Parigi, Francia. Galarie 13 Sévigné, Art Channel Exhibition
Pechino, Pingyao International Photography
Festival, DV Digital Video Art Exhibition 2007
Kunming,  BigScreen Festival 2007
Barcellona, Spagna. LOOP’2008
Roma, Italia. ABSTRACTA 2008. Casa del cinema
New York, USA. ABSTRACTA 2008. Living Theatre
Cairo, Egitto. ABSTRACTA 2008
Toronto, Canada. One Minute Film & Videofestival 2007
Berlino, Gemania. Zebra Poetry Award 2008
Berlino, Gemania. Zebra Poetry Award 2008
Marsiglia, Francia. Fe.V .E. 2007
Marsiglia, Francia. Les Instants Vidéo
Milano, Italia. I’ve seen films. 2008.
Sobota, Polonia. Film and Art Festival. 2008.
Bochum, Germania. ICF 2008
Sin el Fil, Libano. At the Académie Libanaise des Beaux-Arts. 2008
Toulouse, Cinémathèque de Toulouse, Séquence Court Métrage
Biennale di Venezia 2011 e 2013
Grenoble, Francia. Art Science Technologie
Karlsruhe, Germania. ZKM | Zentrum für Kunst und Medientechnologie
Karlsruhe, Germania. Ard Horspieltage Klandome Konzert. 2010.
Karlsruhe, Germania. Giga-Hertz-Preis fur elektronische Musik 2009.
Bourges, Francia. Festival SYNTHESE − Parigi. IRCAM Agorà Festival 2007
Curitiba,  I° Bienal Musica Hoje
New York, USA. ICMC 2010
New York City, USA. Electronic Music Foundation

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